La notte, le luci al neon, le insegne luminose che riflettono una pioggia nera. La città che dorme, i grattacieli come sentinelle, la geometria della città. Già al suo primo vagito per il grande schermo, datato 1981, Michael Mann aveva in testa tutta la sua epopea filmica: quella strutturalità formale e visiva che ha contraddistinto e continua a farlo tutt'oggi, il cinema di uno dei pochi maestri americani rimasti.

Frank (un grande James Caan) è un ladro, uno di quelli veri, meticolosi, precisi, maniacali. Non gli sono bastati 11 anni di prigione a renderlo un uomo diverso. Il crimine lo attrae, non può farci nulla. Neanche la vicinanza della bella Jessie (Tuesday Weld) servirà a fargli cambiare vita. Di giorno vende auto, di notte ruba gioielli. Ma si sa, la vita da criminale è redditizia, ma anche pericolosa...

Con queste premesse da classic crime movie (trama più o meno ricorrente nella sua filmografia), Mann plasma un esordio lineare, solidissimo, essenziale. Il realismo manniano è già ben definito: le sequenze dei furti sono estremamente credibili e totalmente prive di quelle spettacolarizzazioni senza cui sembra impossibile girare un action ai nostri giorni. Nulla è lasciato al caso e la regia di Mann è perfetta nel bilanciare realtà e ritmo narrativo.

Al di là del piano estetico, vero punto focale nella carriera del buon Michael, "Strade violente" va ricordato anche e soprattutto perchè da inizio a quell'insieme di tematiche che ancora oggi definiscono l'opera del cineasta di Chicago. La città (quella Los Angeles anch'essa ricorrente nei film di Mann) è un insieme di acciaio, luci e edifici che fagocitano l'uomo, piccolissimo e insignificante di fronte ad essa. La città è un vero e proprio personaggio "altro", sia in questa pellicola, sia in altri lavori di Mann. Nel profondo nero della notte, Frank è il primo di una lunga serie di personaggi soli, persi, sperduti, caratteristica comune a molti altri eroi e anti-eroi del cinema manniano. I dubbi interiori di chi lotta per proteggere chi vuole (o vorrebbe) amare e di chi sa di mettere in pericolo la vita propria e degli altri con le sue scelte. L'uomo perso nella modernità della metropoli e nella solitudine. Uomini sconfitti, molto simili a quelli di John Huston, altro padre filmico di Michael Mann insieme a Sam Peckinpah. In questo senso, i ralenti nel finale a sottolineare i momenti di violenza, sono una sorta di omaggio al grande regista californiano. Al di sopra di tutto ciò, a cesellare ancora di più il lavoro di Mann, le musiche dei Tangerine Dream, assolutamente perfette per enfatizzare le atmosfere notturne e dilatate del film.

"Thief", titolo originale di tutt'altro significato rispetto alla nostra "traduzione", è la prima opera per il grande schermo di uno dei nomi in grado di ridefinire e anche rivoluzionare il crime/thriller americano degli ultimi decenni. Una pellicola che è già "fredda" ed emozionalmente glaciale come il cinema di Mann ci ha mostrato anche negli anni successivi. Una fotografia che è elemento imprescindibile della struttura filmica manniana. "Thief" non è un capolavoro, ma un capo d'opera nella carriera di Mann, quel film che definisce i contorni entro i quali si muove gran parte della sua opera futura (pur con alcune eccezioni).

Un piccolo cult degli eighties.

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