Premesso che i concerti di personalità così importanti per la storia della musica non dovrebbero essere criticati ma solo raccontati, mi accingo a parlare di quello che penso degli Hallogallo, ovvero Michael Rother + Friends. Gli amici di cui sopra sono Aaron Mullan al basso (membro dei Tall Firs, band sotto l’etichetta Ecstatic Peace! di Thurston Moore dei Sonic Youth) e Steve Shelley alla batteria (membro dei Sonic Youth).
Il concerto inizia in perfetto orario, poco dopo l’ottima prova della band che apriva il concerto, i Mamuthones: un misto di elettronica, Vampire Rodents e Jim Thirlwell (Scraping Foetus off the Wheel).
La partenza è affidata, guarda caso, al primo brano del primo disco dei Neu!; Hallogallo.Rimango colpito dalle novità apportate a questo brano: Rother si nasconde dietro il suo tavolino traboccante di effetti e dietro al suo portatile, assaltando le orecchie del pubblico con terribili scudisciate sonore, metalliche ma incredibilmente profonde; infatti suoni sono farciti da una miriade di effetti, tanto che l’ottima sovrapposizione degli stessi (in particolare si è fatto grande uso di Chorus, Deelay, Flanger e Phaser) rende umano addirittura il suono metallico della distorsione.
Il tutto spesso viene mandato in loop e si creano strati di suono amalgamati, grazie anche all’effetto di “panic”, con i quali il chitarrista ha deciso di descriverci i suoi paesaggi. Il largo utilizzo di mezzi elettronici con tanta sapienza mi ha fatto riflettere: dove sarebbe mai arrivato quest’uomo se nel 1972 avesse avuto a disposizione gli strumenti che si hanno oggi? Mi sono risposto immantinente: probabilmente è più consono pensare a quanto i mezzi che esistono oggi in realtà sono stati progettati partendo anche da quelle che sono state le sue idee nel 1972.
I brani si susseguono con ritmi sempre incalzanti e sviluppi in parte improvvisati ed in parte ben definiti. Ognuno di questi comincia con Rother che giostra con gli strumenti che ha sopra al suo tavolino: genera un suono, lo modifica, aggiunge effetti, eventualmente lo manda in loop, guarda Shelley e Mullan e infine si parte. Sono pezzi tratti dai principali lavori che il chitarrista vanta nella sua carriera: Neu! ed Harmonia. Il susseguirsi dei vari brani, ognuno prolungato a dismisura oltre i dieci minuti, ipnotizza il pubblico che si muove, scalpita, viene trascinato dal ritmo e stordito dalle flusso di pensieri espresso tramite la chitarra.
La potenza del sound e la sinergia tra i membri del gruppo è notevole, benché Aaron Mullan non si sia di certo sforzato di fare qualcosa di diverso dal semplice accompagnamento. Probabilmente era quello che lui voleva (e/o che gli è stato chiesto) di fare, ma a mio avviso un minimo di intraprendenza in più, senza stravolgere più di tanto le linee di accompagnamento, di certo non avrebbe guastato.
Capitolo a parte lo merita Steve Shelley e il suo ruolo all’interno degli Hallogallo. Sicuramente lui non è Dinger, ma non ha senso fare confronti: gli Hallogallo non sono i Neu!. Hanno suonato canzoni dei Neu!, ma l’approccio è molto diverso. Tanto premesso, è giusto riconoscere che Steve Shelley è stato impeccabile: la sua grande tecnica alla batteria non era frenata dall’idea di copiare chi già aveva registrato quei brani, piuttosto è partito da quanto già fatto e lo ha personalizzato. La ossessiva ripetitività tipica di questi brani è stata implementata, ove possibile, con piccoli accorgimenti: giochi sulla dinamica dello strumento, qualche variazione sul tema, una rullata che prima non c’era o uno stacco diverso dal previsto. Anche questa è arte: il discorso (ritmico) rimane lo stesso, ma è cambiata la forma. Il tutto condito dall’immensa classe e dall’energia che sono proprie di questo musicista.
La cosa che più mi ha colpito in realtà la dico solo ora: il comportamento di Michael Rother sul palco. È stato freddo e apparentemente insensibile quasi tutto il tempo, raramente ha concesso qualche sorriso verso il pubblico e l’unica volta che ha fatto sentire la sua voce è stato verso metà concerto, quando ha presentato gli altri membri della band. È stato interessante notare che spesso Shelley, che faceva un po’ il direttore d’orchestra sullo svolgimento dei pezzi e sul dare loro una conclusione, non riusciva a trovare lo sguardo del chitarrista per fargli capire che era il momento di finire il brano, tanto Rother era impegnato a sviluppare un flusso di coscienza senza rendersi conto di ciò che accadeva attorno a lui. Istintivamente il mio pensiero è tornato a chi ha accompagnato in passato lo sviluppo di queste idee e voglio spiegare il perché raccontando un aneddoto letto tempo fa su un sito internet.
Come noto, Rother e Dinger si conobbero bene durante la loro esperienza fugace come membri dei Kraftwerk nel 1971. Quando Ralf Hütter abbandono il gruppo durante il tour di presentazione del loro primo disco, i Kraftwerk si ridussero ad un gruppo di tre elementi: Florian Scneider all’organo e al flauto, Michael Rother alla chitarra e Klaus Dinger alla batteria. Questi ultimi due decisero di intraprendere un discorso musicale diverso da quello che aveva in mente Schneider: cercarono di sviluppare un lavoro più incentrato sulla pop art e sulla musica totale, sul rumore e sui flussi di coscienza. Sperimentando un nuovo stile musicale, più improntato su uno svolgimento emozionale del brano all’interno di una struttura ritmica ben definita, ripetitiva, ossessiva e ipnotica, i Neu! intuirono, tra le altre cose, quello che poi, a distanza di pochi anni, venne chiamato musica industriale.
Nonostante la loro incredibile sinergia e la mole impressionante di idee e spunti che i due riuscivano a trasmettere nei loro lavori, c’era qualcosa che non andava. I due erano arrivati ai ferri corti già durante il loro primo tour, nel quale Rother dichiarò di aver capito che i Neu! non erano un gruppo da performance live a causa dello stile estremamente diverso dei due membri di affrontare il pubblico. Dinger era una autentica furia: durante i concerti era solito ferirsi e suonare con gli arti sanguinanti. Il pubblico rimaneva estasiato dalle performance di Dinger, da questo suo vivere così intensamente l’esibizione tanto da diventarne il sacrificando. Dal canto suo invece Rother non capì mai il perché il pubblico fosse così colpito da questo approccio del collega e, dato che non approvava ne’ condivideva questo tipo di performance, decise di chiudersi dietro ai suoi effetti pensando semplicemente ad affrontare lo sviluppo di un discorso musicale durante i concerti.
Mi piace pensare che la freddezza di Rother durante il concerto a cui ho assistito sia, nonostante tutto, anche un modo per sentire più vicino a se Klaus Dinger, il motore delle sue idee.
Ah, un’ultima cosa: appena è salito sul palco Steve Shelley mi sono detto “che figo, sale sul palco assieme ad un suo amico”. Poi ho capito che in realtà si trattava della sua pancia.
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