Dopo una lunga assenza da DeBaser, ho deciso di tornare. E di farlo in grande stile, parlando di uno dei film evento del 2017, candidato agli Oscar, non portandosi a casa, ahimé, l'ambita statuetta d'oro. La tartaruga rossa di Michaël Dudok de Wit è uno di quei film che quella fetta di pubblico che dal cinema pretende solo il puro intrattenimento definirebbe come "una palla": una palla perché la storia è quasi del tutto priva d'azione; una palla perché non parlano mai; una palla perché "i cartoni animati sono per bambini".

La tartaruga rossa, però, non è nulla di tutto ciò. E' una poesia silenziosa e delicata, un trattato filosofico che vive di allegorie ed elegantissimi disegni ad acquerelli. Non voglio parlare della trama, alla quale accennerò solo laddove necessario. Perché la trama è secondaria. Ciò che veramente conta è la riflessione di de Wit sulla condizione dell'uomo e sul suo rapporto d'amore-odio, anzi, d'odio-amore con la natura. Prima regia per un film dello Studio Ghibli affidata ad un non-giapponese (de Wit è olandese), La tartaruga rossa è, nella sua prima metà, una triste e crudelmente reale rappresentazione dell'umanità, descritta come un'entità egoista, disposta a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, anche uccidere e danneggiare la natura. Il protagonista è un uomo, un naufrago, che assurge a campione del genere umano, sperduto e spaventato, impotente. La seconda metà del film, invece, mostra quale sia la strada per rifuggire da questo abisso in cui noi tutti ci troviamo: bisogna imparare a convivere e ad amare la natura. Un messaggio solo in parte ecologista, poiché non vuole dire "salviamo la natura" (come accadeva in altri film dello Studio Ghibli, in particolare quelli di Hayao Miyazaki, come La principessa Mononoke) ma "salviamoci amando la natura". Quando il naufrago, dopo la morte della grossa tartaruga rossa che ne impediva la fuga e la trasformazione della stessa in ragazza, convive con la donna e, quindi, con la natura, ritrova la pace e la serenità, che lo aiuteranno anche nelle situazioni più drammatiche. La Terra non è dell'uomo, l'uomo è della Terra. Finché non capiremo questo, saremo destinati ad un'esistenza che ci opprime e dovremo subirne le angherie senza poter far nulla per resistere a testa alta, saremo, per usare una metafora di leopardiana memoria, come quella ginestra che, sul Vesuvio, non può far altro che inchinarsi alla potenza della Natura e della Vita.

Parlare dell'aspetto puramente tecnico è un po' un insulto alla bellezza del film ma credo che sia comunque necessario ai fini della completezza della recensione. Dallo Studio Ghibli siamo stati abituati ad un determinato stile grafico e narrativo, tipicamente giapponese. Prima di vedere La tartaruga rossa, per conoscere un po' meglio Michaël Dudok de Wit, ho deciso di dare un'occhiata ai suoi corti (questo è il suo primo lungometraggio) per capirne un po' meglio lo stile. Vedendo che i due modi operandi erano estremamente diverse gli uni dagli altri, temevo che il regista si sarebbe adattato a quello dello Studio. Invece, con mia grande gioia e sorpresa, de Wit ha saputo imporre la propria arte, realizzando un film inconfondibilmente dewittiano: linee semplici, acquerelli, estrema eleganza nella disposizione degli elementi di scena,... questo è un film dello Studio Ghibli solo sulla carta, poiché, oltre alla assoluta delicatenza e alla meravigliosa bellezza, non ha molto da condividere con il cinema dello Ghibli.

Non vorrei sprecare la parola "capolavoro" inutilmente ma mi riesce difficile non usarla in relazione a questa vera e propria opera d'arte. Facciamo così: io non la dico ma voi, nella vostra mente, fate come se l'avessi detta. Poetico, delicato, elegante, tenero e dolce sono solo alcuni aggettivi che calzano alla perfezione La tartaruga rossa, non riuscendo, tuttavia, ad essere esaustivi. La tartaruga rossa è una perla destinata, nel giro di pochissimo tempo, a diventare un classico del cinema d'animazione. Veramente, veramente bello.

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