Sarebbe prevedibile iniziare una recensione su una qualsiasi pellicola di un qualsiasi grande regista italiano o straniero dicendo che il suddetto lavoro si configura sin da principio come complesso e difficile da portare a termine senza toccare minimi storici. Ma soprattutto, sarebbe un modo come un altro per giustificare a priori le proprie incompetenze e poter quindi controbattere alle eventuali critiche con un "Te l'avevo detto". Eppure, nel mio caso, non riesco a fare a meno di questa sorta di preambolo: giudicare un film di Michelangelo Antonioni è effettivamente cosa ardua. Le componenti che rendono il compito articolato sono molteplici, se si considera il timore reverenziale verso un uomo che è stato dietro le quinte del cinema italiano per anni, sepolto da valanghe di premi e riconoscimenti internazionali e che ha collaborato con grandi firme da Roberto Rossellini per "Un pilota ritorna" a Federico Fellini per "Lo sceicco bianco". Incontrarlo in veste di principiante con "Cronaca di un amore" (1950), non snellisce il lavoro, magari insistendo sulla falsa convinzione per cui l'opera di debutto sia di facile analisi e comprensione perché l'autore si trova ancora in una fase embrionale, ma al contrario lo decuplica. Non resta altro da fare, dunque, che proseguire al fine di sbrogliare la matassa e giungere ad una valida conclusione critica. Con questo chiudo la mia introduzione, e, volendo citare F. Dostoevskij, "sono anche io perfettamente d'accordo che sia superflua ma siccome ormai è bell'e scritta, lasciamola stare. E adesso all'opera".
Presso un'agenzia investigativa milanese giunge una strana richiesta: il ricco industriale Enrico Fontana chiede di istruire delle indagini sulla moglie, ma non riguardo il suo presente, bensì sul passato. Il motivo viene presto esplicato: l'uomo ha sposato la sua Paola poco tempo dopo il fidanzamento e vuole sapere chi lei fosse realmente prima di divenire sua moglie. Le indagini partono da un liceo di Ferrara, luogo natio della donna, e non sembra ci siano grandi misteri. Tutti ricordano Paola per la straordinaria bellezza e per il conseguente grande numero di corteggiatori. L'investigatore Carloni procede nel raccogliere tracce di Paola e si reca da una sua vecchia amica, Matilde, fingendosi un conoscente del padre. La visita in casa di quest'ultima è un punto cruciale: a rivelarsi davvero utile è il compagno di lei il quale riferisce a Carloni che Paola aveva una tresca con Guido, il fidanzato di un'altra sua amica, Giovanna, e dopo la morte di lei, Paola era scappata da Ferrara in fretta e furia, mentre Matilde lo liquida dicendogli di non poter essere utile poiché ha perduto da tempo i contatti con l'amica ma non appena Carloni esce di casa, Matilde inizia a scrivere una lettera: "Caro Guido..."
Frattanto a Milano, Paola riprende a incontrarsi con Guido il quale la informa che un uomo li pedina. Inizia così ad emergere il torbido segreto dei due amanti: Giovanna era morta cadendo nella tromba dell'ascensore in presenza del fidanzato e dell'amica. Anche Carloni viene a sapere del fatto e lo etichetta subito come un delitto. Gli amanti sono sempre più impauriti dall'ombra del loro pedinatore, dal timore della polizia e del carcere, pur non avendo spinto Giovanna, ma ben presto Paola entra a conoscenza della verità. Preso dall'ebbrezza dell'alcool, il marito le confida di aver assoldato un detective per controllarla. Nella donna inizia a crescere un sentimento di rabbia verso lo sposo e ne parla a Guido. Quest'ultima scena è il nodo cruciale della seconda parte: Guido ammette di aver visto che Giovanna stava inconsciamente per buttarsi nel vuoto ma non l'aveva avvisata, mentre Paola si fa promotrice di un piano per uccidere il marito. Il piano si rivelerà però inutile. Carloni comunica a Fontana della relazione adulterina sulla moglie e lui, scosso dalla notizia, rimane ucciso in un incidente d'auto. L'episodio separerà per sempre gli amanti.
L'importanza storica del primo lungometraggio di Antonioni è palese. Lietta Tornabuoni lo definì un poliziesco d'amore, un antiromanzo cinematografico e in effetti basterebbe quanto appena detto per comprendere l'essenza di questo esordio: una polemica implicita o, se si preferisce, la volontà di portare una boccata di aria fresca nel cinema italiano in cui il neorealismo aveva detto tutto ciò che aveva da dire, si era esaurito. Il nuovo mondo di Antonioni è quello dell'alta borghesia italiana fatto di sfilate di moda, donne ben vestite, coniugi annoiate, mariti troppo presi a garantirsi la loro fetta di torta in pieno boom economico. Vengono messe da parte le ambientazioni popolari, i tristi scenari delle province malandate e la cinepresa entra in un piccolo cosmo dorato pieno di vizi e isterismi, quello della borghesia italiana della seconda metà del secolo XX, si rammenti a riguardo il personaggio al margine di una danarosa dama che parla ad una cagnetta come se si riferisse ad una bambina. Il regista penetra con calma ed efficiente lentezza all'interno della storia, non a caso lo spettatore conosce il personaggio di Paola dopo circa un quarto d'ora dall'inizio.
Ma l'aspetto di vitale rilevanza resta quello intrinseco alla trama stessa: Paola e Guido inseguono il loro sogno d'amore caratterizzandosi per una continua tensione verso la felicità, insieme ovviamente. Il loro destino però può realizzarsi soltanto mediante l'omicidio, prima di Giovanna, poi di Enrico ma entrambe le morti sono accidentali (nonostante nel secondo caso gli amanti avessero pianificato l'assassinio di Fontana) ed entrambe non fanno altro che dividerli. Antonioni scandaglia l'animo dei personaggi fino a rilevare come principale ostacolo alla felicità la coscienza, in qualche modo gli amanti stessi sono l'ostacolo al proprio obiettivo. La splendida Lucia Bosè, che interpreta magistralmente la protagonista, è avvicinabile ad uno dei numerosi personaggi femminili del teatro di Ibsen, ossia donne frustrate alla continua ricerca di evasione, se pur priva di quel titanismo che invece contraddistingue le eroine dell'autore norvegese. In contrasto con l'indole fragile di Paola c'è il disincanto di Massimo Girotti-Guido, umile venditore di automobili (tra l'altro incapace nel suo lavoro, come si apprende nel corso di una trattative con lo stesso Enrico Fontana) che troncherà definitivamente la storia e che lascia in conclusione con la sua partenza il triste messaggio di un'eterna condanna per l'uomo ad una felicità imperfetta se non assente.
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