Una delle riflessioni più interessanti di Michelangelo Buonarroti (1475-1564) attorno alla sua arte, ed alla scultura in particolare, riguardava il rapporto fra materia e creazione individuale: secondo l'artista fiorentino, non era l'uomo a creare l'opera d'arte dal nulla, sulla base di un impeto creativo o di un'ispirazione più o meno sorvegliata, ma era la stessa opera ad emergere dalla materia, nella quale era già compresa, per azione dell'individuo. L'artista più abile, intendeva Michelangelo, non era al dunque che un demiurgo, un artigiano che faceva da tramite fra una dimensione superiore ed una dimensione terrena, disvelando il bello ed il bene che si nascondevano nella pietra, a propria volta calchi di un Bello e di un Bene supremo, opera di un Artefice a propria volta Supremo.

Si tratta di una reminiscenza neoplatonica, com'è facile intendere, venata a mio parere di un'ironica forma di falsa modestia che, probabilmente, sottintendeva una celebrazione di sé come soggetto in tramite con il Bello ed il Bene, o, se vogliamo, come artista in tramite con l'Artefice. Reminiscenza che ben si attaglia alle opere più grandiose del Buonnaroti, come il David o il Mosè fiorentini, in cui il titanismo scultoreo rivela le forme perfette, inarrivabili, fuori dal tempo, di figure a cavallo fra il mito e la storia, di cui viene esaltata la forza simbolica, feticcio di un potenza terrena direttamente in contatto, anche qui, con una dimensione divina legittimante.

Quasi che Michelangelo si specchiasse nel Mosè o nel David, fondendo in essi scultore e scolpito.

Se questo è il contesto in cui si mosse per larga parte della sua vita il Nostro, può quasi stupire il linguaggio anticlassico della Pietà Rondanini (1560-1564?), scultura attualmente conservata al Castello Sforzesco di Milano, con un allestimento che ne esalta il nitore stilistico, il tono drammatico, l'essenzialità espressiva.

Scultura in marmo, la Pietà raffigura la Vergine e il Cristo nell'atto finale della Passione, mentre la donna sorregge, appena tratto dalla croce, il cadavere del figlio.

Contrariamente alla classica iconografia, seguita da Michelangelo anche nella sua precedente Pietà Vaticana (1499) la Vergine non è seduta, tenendo in grembo il figlio nel tradizionale parallelismo fra nascita e morte del Salvatore, ma viene colta in un momento di sofferenza fisica e spirituale assieme, in cui il peso del corpo martoriato del Dio fattosi Uomo rivela la fisicità stessa della morte, e l'angoscia della perdita. Angoscia di madre, certamente, ma anche angoscia di ogni fedele, muto di fronte la cessazione di ciò che sembrava non dover cessare mai.

Il dolore della donna è colto in un momento dinamico, e tutta la scultura, allestita per girarvi attorno, è resa mediante linee curve che esaltano la mobilità della scena, rendendo quasi viva la materia nel paradossale momento in cui essa stessa indica la fissità ed immutabilità della morte.

Il dinamismo dell'opera è valorizzato dalla tecnica scultorea di Michelangelo, il "non finito" che il nostro ebbe a praticare negli ultimi anni della propria parabola esistenziale e creativa. Per "non finito" intendiamo una tecnica che si limita ad abbozzare le figure sulla pietra, senza una autentica soluzione di continuità rispetto alla materia, che conserva, ancora, il suo aspetto, la sua composizione naturale, e senza una lavorazione di dettaglio, ad esempio su particolari come zigomi, capigliature, occhi, mani che determini la definitiva manipolazione della pietra nell'opus scolpito. Si tratta, com'è agevole intendere, di una tecnica, e di un linguaggio, fortemente anticlassici, o quantomeno contrari alla versione idealizzata di classicismo diffusa in epoca rinascimentale, che ridimensiona, in contrasto con le premesse di cui si è detto, la stessa funzione demiurgica dello scultore.

Sembra quasi che egli rinunci a ricavare il Bello ed il Bene insiti nella materia, rinunci a farsi interprete dell'Ideale impresso nella pietra dal sommo Artefice, agendo per sottrazione, solo accennando alle forme che essa contiene, solo facendo presagire la perfezione possibile del "finito", che tuttavia non si vuole più raggiungere.

Il tutto enfatizza il contenuto drammatico delle opere, posto che il messaggio della Pietà si fonde nella natura della pietra, si universalizza oltre la mera dimensione creativa dell'artista; ma, al contempo, pone interessanti interrogativi circa il modo in cui il tardo Michelangelo intendeva la propria attività, rifletteva su di essa. Egli, forse, rinunciava negli ultimi anni della sua vita a farsi demiurgo, lasciando che l'emozione, non la tecnica fine a se stessa, filtrasse dagli scarni abbozzi della propria scultura, accogliendo l'idea che, al dunque, la divinità mutasse continuamente il proprio volto, e non potesse essere colta, intesa, vissuta, soltanto nella realizzazione di forme, linee, immagini, modellate sull'ideale di perfezione.

La perfezione, forse, era inconoscibile, il percorso per avvicinarla una strada senza fine autentica,  partecipe di una dimensione di infinito che, non casualmente, trova un omologo nel "non finito" della sua tecnica scultorea.

Michelangelo seppe esaltare, nella sua lunga vita, tutto ciò che era classico, superandone nondimeno i limiti ed approdando consapevolmente alla negazione del proprio modello, del suo stile, e forse anche di se stesso e della sua concezione del Divino: in tutto ciò egli fu, più di ogni altro, autentico genio della propria epoca, capace di trascendere il tempo in cui visse per consegnare all'eternità un messaggio ancora vivo e toccante.

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