"Nessun organismo vivente può continuare per molto a mantenere la propria sanità mentale in condizioni di realtà assoluta: anche gli uccellini e le cavallette, dicono, sono capaci di sognare. Hill House, insana, stava da sola contro le colline contenendo in sé solo buio, era stata così per ottant'anni e tale poteva rimanere per altri ottanta. All'interno, le pareti continuavano ad essere erette, i mattoni a stare uno accanto all'altro, i pavimenti erano saldi e le porte assennatamente chiuse. Il silenzio si stendeva sul legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa fosse lì dentro, vagava in solitudine".

Dopo questo incipit scelgo di dare una chance a The Haunting of Hill House, la serie su Netflix (molto) liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Shirley Jackson, del 1959. Non ho letto il romanzo, ma questo intrigante inizio condiviso dalla serie mi attira e mi induce a pensieri di riappacificazione con il genere Ghost stories, da me frequentato sporadicamente e pressochè abbandonato dopo la visione di cose come The Others e Il Sesto Senso. Non sono certo lo spettatore perfetto di questo genere, forse perché appartengo a quella schiera che parteggia per lo spettro, purchè sia crudele e incazzereccio. Capiamoci. Ti è stata riservata una vita complicata, soprusi assortiti, un trapasso usualmente violento (eteroindotto o autoindotto che sia) e ti è rimasta l’anima incastrata da tra due dimensioni. Quindi avrai pur diritto a rimuginare in beata solitudine sul tuo destino senza aver rotture di coglioni da parte di gente con l’espressione da Buoni Fruttiferi del Tesoro che arriva nella tua casa e pretende pure di metterla a soqquadro. No? Il minimo è massacrarli, al limite lasciando un solo sopravvissuto come memento di girare alla larga per la rispettabile popolazione terrena.

Sarà per questo motivo che frequento poco il genere, ma certamente disprezzo plot dove mi si propone lo spettro buono, partendo da Ghost fino ai fantasmi disorientati di The Others e a quelli del Sesto Senso che fanno il salvator mundi. Sarà per questo che tra le cose meno antiche ricordo con piacere solo il primo The Ring, dove ho tifato selvaggiamente per lo spettro-bambina. Sarà per questo che con questo Haunting ho superato la mia repulsione verso le serie di Netflix ed ho concesso attenzione a qualcosa che pareva garantire una sana efferatezza di spettri nei confronti di una benestante famiglia americana, i Crain, moglie architetto e marito immobiliarista o giù di lì con prole variegata, i quali si incistano in una splendida dimora neogotica con l’intenzione di ristrutturarla per poi rivenderla. Perché questo fanno di mestiere.

Giustamente la casa inizia a ribellarsi. Niente di che. Il minimo sindacale. Porte chiuse che si spalancano, la bimba più piccola che vede una donna con il collo storto, il fratellino raddoppia con uno spettro in cantina e l’immancabile amico immaginario, pareti scosse da tonfi, ed arriva pure una citazione (voglio credere voluta) del grande H.P. Lovecraft con il suo racconto Cool Air, in quanto mammina Crain avverte più volte spifferi freddi. Parrebbero i soliti elementi standard da casa posseduta, ma il regista Mike Flanagan, specialista del genere (vedo che ha diretto cosette come Oculus, Ouija, Il gioco di Gerald) li dosa in modo impeccabile, con un ritmo apparentemente calmo, alternando jumpscares a momenti di finto rilassamento, sviluppando il tono della narrazione in spirali sempre più cupe. Utilizza inquadrature ad effetto, gioca con i dettagli della casa, sfrutta al meglio l’indubbia bravura degli attori, a partire dai bambini.

Fin qui tutto bene. Il problema è che non ho considerato che trattasi di una serie, con un’infilzata di dieci episodi, della durata media di un’oretta. Tanto, troppo tempo da coprire. Flanagan risolve la questione trasformando la vicenda in un drammone famigliare. I cinque bambini dei Crain sono cresciuti, ma continuano ad essere perseguitati dal ricordo di quanto accaduto tempo prima nella casa. Così nei primi episodi si sviluppano le storie e i drammi di ciascuno di loro, alternandoli con flashback sugli episodi nella casa. Tuttavia il fascino necronomico della dimora e delle sue simpatiche presenze passa progressivamente in secondo piano rispetto all’indugiare sui contorcimenti psichici dei nostri protagonisti. Tutta colpa di quei cattivoni spettri di Hill House, ci ricorda Flanagan, che devono pure andare in trasferta per tormentare a domicilio i cinque ex fanciulli dei Crain. Sarà. Ma i tempi morti inevitabilmente si accumulano e le vicende personali dei nostri francamente mi risultano stucchevoli e afflitte da deja vu. Arrivo esausto al quinto episodio, dove c’è un innegabile risollevarsi del climax horror a scapito delle voluttà introspettive, ma non mi illudo, essendo ormai chiara la direzione dove vuole andare a parare il nostro Flanagan, probabilmente opposta rispetto alle parole dell’incipit. Mi fermo quindi all’inizio del sesto episodio, caratterizzato da un virtuoso piano sequenza, che non saprei se definire magistrale o accademico. Così evito il pericolo spoiler e di rivelare troppo a chi ancora non avesse visto la serie.

Abbandono, per ora, per sfinimento, e con non poche perplessità un prodotto che definirei tecnicamente ineccepibile ma che ha sostanzialmente deluso le mie ingenue aspettative iniziali. Peraltro, ripeto, non sono certo un esperto di questo genere, per cui sarei felice di scoprire pareri su questa serie da parte di chi ne capisca più dello scrivente.

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