"Milestones", il termine con cui Miles Davis ha voluto designare questo seminale lavoro del 1958, è già una dichiarazione programmatica, cronaca del presente e racconto di ciò che sarà. "Pietre miliari", le 6 tracce di questo disco, esordio della rivoluzione modale, l'era in cui il jazz incontra sè stesso innamorandosi irrimediabilmente. Pietre miliari sono quelle che Miles disseminerà nel giardino incantato del suo vagabondare, e per esteso, nella Musica del secolo andato. Ma fermarsi alla prima accezione verbale appartiene al jazz antico, ancorato alle strutture canoniche. È tempo di pensiero dissociato, e allora "Miles tones" sono i toni, gli accenti, le gradazioni di Miles, il suo stile. "Miles tones" è anche Miles che intona, armonizza, tonifica, dà vigore.

Se il bebop giocava sull'ipertrofia armonica, su una circolarità barocca che ricorda il movimento vincolato dello spirografo, la musica di Miles non funziona più attorno ai giri, ma ai modi. Mentre il giro si reitera, sempre esaurendosi in sè stesso, il modo può combinarsi senza limite. E così, sullo scheletro di pochissimi, scarni accordi, il musicista ha sterminati orizzonti per vagare, generando strutture che si portano addosso il brivido dell'inesplorato, la febbre della creazione. È come parlare d'amore: frasi improvvisate blandiscono il tema portante, lo accarezzano, se ne distaccano d'improvviso per poi riaccostarvisi, una danza di corteggiamento che non può essere altro che ebbra. Il leader (e Dio sa se Miles lo era) scandisce i tempi, attraverso cenni poco più che arcani, cadenzando lo svolgersi del baccanale attorno a sè: nel carisma dell'officiante, nel sistema semantico attraverso il quale egli riesce a tenere a sè i musicisti, ecco, qui mi pare abitare il miracolo modale, e mai smetterò di meravigliarmene.

Se la sublimazione di questo nuovo canone avverrà un anno dopo con "Kind of Blue" (ancora un titolo dalla pluralità di significati, il modo, l'indeterminazione, l'interpretazione), l'immenso valore intrinseco di "Milestones" risiede nell'avere spezzato le catene e creato una nuova architettura del suono. La necessità di declinare i toni secondo nuove regole spinse Davis a varare la formula del sestetto, che soprattutto negli anni immediatamente a venire, tanto prodigio seppe produrre. John Coltrane, Julian "Cannonball" Adderley, Philly Joe Jones, Paul Chambers, Red Garland, mucchio selvaggio d'elite al seguito del capo. Si parte.

La prima traccia, "Dr. Jackle", riprende una registrazione tre anni prima dell'era Prestige; è infatti ancora bebop, impetuoso, claustrofobico. Jones crea un tappeto sonoro dove gli argentei motivi dei piatti si intrecciano a furenti rullate, su cui cavalcano invasati i tre fiati. Bebop che vuole strapparsi la pelle di dosso, in un bagno di sudore. "Sid's Ahead", composizione originale di Davis, ci riporta coi piedi sulle nuvole, complice un celestiale assolo di Coltrane, col piano di Garland che scorre sottopelle per poi dissolversi all'ingresso di Miles, imperioso, che disegna su un raffinato 4/4 di casa Jones/Chambers una splendida, nervosa trama, conclusa da uno struggente dialogo col basso.

Entra in scena Cannonball, come da poco detto tra queste pagine, pinguemente, ma al contempo acuminato nel fraseggio, un fiume, e poi l'assenza di fiati, ora tocca a tasti corde e piatti e pelli, cui Davis appone la firma in calce. Complesso, d'una malinconica vitalità, questo pezzo restituisce tutto il carisma di Miles Davis, che sembra pervadere i 13 minuti della suite, ora col fiato, ora con lo sguardo, ora col solo pensiero. È anche il primo momento squisitamente modale del disco, dove la sottrazione degli elementi vincolanti si traduce in appassionata introspezione. Chapeau. "Two Bass Hit" rialza il tempo, rapido, magnifico blues, poggiato su liquescenti linee di basso di un Paul Chambers in evidente stato di grazia. È proprio questo, sembra esserci qualcosa nell'aria di contagioso e palpabile. Verso il termine del suo assolo, Adderley tocca uno dei suoi vertici, perdendosi in una sorta di trance, è allo stato brado quando il Pifferaio Miles lo soccorre, gli sale in sella, lo riconduce all'ordine con un tema dalla grazia inenarrabile. Quei pochi, furiosi secondi in cui i due si compenetrano, contengono tutto: attrazione, devozione, estasi, giogo. A posteriori, quei pochi, furiosi secondi, mi paiono preconizzare la dissoluzione di Bitches Brew.

È ora di "Milestones", l'evento. È musica senza tracciato, di cui è dura ardire una cronaca. Adderley e Coltrane sono due astronauti che mettono il naso nel cosmo, tenuti da due accordi di base ma liberi di vagare come mai prima d'ora. Spazio. Ma più di tutto, solenni sono i singulti di Miles (Miles tones) che cominciano il pezzo, non concedendo alternativa all'esplorazione indiscriminata. Per il poco più che trentenne John Coltrane, che proprio allora metteva le ali, quell'assolo dovette significare molto, suggerendogli la trama del suo ultimo, glorioso decennio, ossia quell'assenza di vincoli che sola può sollevarci da una vita troppo greve.

"Billy Boy" vive su una magnifica intuizione di Red Garland, che disegna al piano un tema delizioso, Chambers e Jones non chiedevano altro che ronzargli discretamente attorno. È un sonetto, ispirato da un clima di pacifica contemplazione, e dalla gioia di chi sa di averla fatta davvero grossa pochi attimi prima. Lo stile frammentato di Thelonious Monk era ben noto a Davis, che sceglie la sua "Straight, No Chaser" per chiudere il disco. Quella successione di sincopi e fuoritempo è il luogo d'elezione per le scorribande di Cannonball, il cui unico obiettivo pare sia tendere le mani in ogni direzione, a raccogliere frutti d'ogni sorta, toni d'ogni gamma. La metrica suggerita da Jones conduce, col beneplacito del leader, agli ultimi colpi di badile: la milestone è piantata, servirà agli eredi, ma ben più ai protagonisti dell'impresa, posteri di sè stessi.

Episodio fondamentale nel tragitto di chi più di tutti ha percorso, trapassato e segnato l'epopea del jazz, "Milestones" trasmette insieme l'urgenza del post- e quella del pre-. Sospeso tra gli spasmi del bop e la perfezione formale di Kind of Blue, il disco li racconta entrambi, parimenti nostalgico del tempo andato e di quello da venire. Più di tutto, però, commuove una lettura sincronica di questo disco, cronaca fedele di un'alba, registrazione in presa diretta di un uovo che si schiude.

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