Nati e cresciuti nello stesso contesto dei “cugini” Lynyrd Skynyrd, i Molly Hatchet, per un lustro, sono stati tra i rappresentanti più autorevoli del verbo del rock sudista. Negli anni Settanta, infatti, se la vecchia Europa si infiammava al suon di Immigrant Song e Child in Time, le vecchie colonie a stelle e strisce rispondevano urlando in coro “Freeeee Biirrdd!”. Imparata la lezione dell’hard rock, il southern ne porta le radici blues ai massimi livelli, abbracciando anche il country, andando così a forgiare uno stile che, come si evince dal nome stesso, è emanazione di un contesto socioculturale ben preciso.

Quasi per uno scherzo del destino Dave Hlubek e i suoi, dopo la solita gavetta, arrivano all’esordio a 33 giri nel ’78, ovvero subito dopo che la storia degli Skynyrd si è chiusa come tutti sappiamo - le reunion successive di Gary Rossington e soci avranno davvero poco a che vedere col gruppo originale – raccogliendone, agli occhi di molti, il testimone. Formazione a sei, voce potente e “triple guitar attack”, l’omonimo LP di esordio riscuote un buon successo, con le varie Bounty Hunter, Gator Country e Dreams I’ll Never See che si rivelano essere un ottimo biglietto da visita. Le atmosfere da locale honky tonky, i resoconti di torride serate al sapore di tequila e whiskey e di amori travagliati, come da tradizione blues, fanno ovviamente parte della ricetta: non si inventa nulla, ma lo si fa con la convinzione necessaria. Già con il primo LP si inaugura, inoltre, la serie di tributi che il gruppo riconoscerà ai propri “padri”: tocca qui alla già citata Dreams, presa in prestito dalla Allman Brothers Band. Nota a margine: cosa c’entrassero le copertine di Frank Frazetta in stile Conan il Barbaro con il boogie rock non lo ha mai capito nessuno, ma indubbiamente avevano il loro fascino. Quanti negli anni Ottanta avranno comprato i loro LP aspettandosi dei cloni dei Manowar? Più di uno, ma chissà che non ne sia rimasto piacevolmente sorpreso.

La formula si ripete l’anno dopo con Flirtin’ With Disaster: il pezzo omonimo diventa la loro Sweet Home Alabama e Whiskey Man e One Man’s Pleasure non sono da meno. Ancora, alla formula originaria non si aggiunge molto, ma il risultato finale è di nuovo degno di nota, con assoli infiniti, le chitarre del trio Hlubek-Roland-Holland a farla da padrone, voce incatramata e ritmi blues che continuano a dettare le regole. Siamo nel 1979, ovunque disco e punk spopolano, l’heavy metal è in rampa di lancio, ma, paradossalmente, qui si continua a vincere con una proposta che più passatista non potrebbe essere, essendo totalmente fuori tempo massimo. La riprova? L’omaggio al Robert Johnson di Cross Road Blues, brano di quarant’anni prima, più volte suonato dal vivo: siamo all’abc di un intero genere. Flirtin’ With Disaster resterà il grande successo per il quale sono ancora oggi ricordati ma anche un po’ il loro canto del cigno: Danny Joe Brown, fermato da problemi di salute, si vede costretto ad appendere il microfono al chiodo, ma gli ex compagni andranno comunque avanti.

I fan più accaniti vedranno sempre in Brown la vera anima del gruppo, ma va dato atto al suo successore, Jimmy Farrar, di essere all’altezza del ruolo. Anche grazie alle doti del nuovo arrivato, infatti, gli Hatchet del nuovo Beatin’ the Odds danno massimo risalto alla loro vena hard rock, senza comunque snaturarsi. Sailor e Poison Pen confermano le doti di musicisti che sanno far convivere ritmi robusti e melodie, con Penthouse Pauper, a firma Creedence Clearwater Revival, che è l’ennesimo rimando alle proprie radici. La mezz’oretta del disco trascorre piacevole, ma qua e là iniziano a intravedersi le prime crepe, con la sensazione che ormai si proceda su coordinate fin troppo sfruttate, fermo restando che il genere in sé non presenta grosse possibilità di rinnovamento. Si va comunque avanti senza scossoni: l’addio di Brown sembra essere ormai stato assimilato, gli Hatchet dal vivo si confermano una potenza e, in pieno boom heavy metal, i sei salgono sul carrozzone, anche se si tratta di un genere col quale hanno a che fare fino a un certo punto.

L’avventura continua nel 1981 con Take No Prisoners, che conferma la formazione del disco precedente. Tutto formalmente inattaccabile, con la coinvolgente Respect Me in the Morning, impreziosita dalla partecipazione di Baby Jean dei Mother’s Finest, sugli scudi, ma siamo alla copia carbone degli album precedenti. Bloody Reunion, comunque, resta un ottimo pezzo con cui aprire un disco e infatti verrà riproposta anche durante le successive tournée. Si trova anche il tempo per il tributo di rito, stavolta con Little Richard e la sua Long Tall Sally, ma la formula è diventata abusata.

Per una ventata di aria fresca si deve aspettare due anni e No Guts… No Glory, che chiude il periodo migliore della band. La formazione viene stravolta e, oltre al rientrante Brown, ci si presenta con una sezione ritmica nuova di zecca, con Riff West al basso e Barry Borden alla batteria, al posto degli storici Banner Thomas e Bruce Crump. Il trio Hlubek-Roland-Holland fa faville e Fall of the Peacemakers è tra i brani maggiormente rappresentativi degli Hatchet e forse dell’intero genere, mentre con Kinda Like Love si entra, in maniera convincente, in territori più radiofonici, ma siamo ormai agli sgoccioli. Holland se ne va e al suo posto entra il tastierista John Galvin e da quel momento si abbracciano sonorità più orecchiabili. Si andrà avanti fino alla fine degli anni Ottanta, con Duane Roland portabandiera della formazione, essendo l’unico a non aver mai abbandonato la nave, prima di mettere definitivamente la parola “fine”.

Da una ventina d’anni esiste un’altra versione del gruppo, senza alcun membro storico o originale, guidata da Bobby Ingram, chitarrista che aveva sostituito Hlubek a fine Ottanta, ma siamo alla stregua di una cover band. Con Steve Holland passato a miglior vita la scorsa estate, tutti i membri storici hanno lasciato questo mondo e vedere il nome degli Hatchet ancora sulle locandine dei vari festival è a dir poco una forzatura. In Europa, tranne che nella “solita” Germania, non hanno mai goduto di particolare popolarità, mentre negli USA continuano ad avere un pubblico fedele. Da qualche anno i cinque album storici sono stati ristampati in un unico cofanetto dalla Sony/Legacy per la serie Original Album Classics: inutile dire che è un’ottima occasione per riconoscere il giusto tributo a questi indomiti guerrieri del Sud.

Molly Hatchet (formazione storica):

  • Danny Joe Brown, voce
  • Dave Hlubek, chitarra
  • Duane Roland, chitarra
  • Steve Holland, chitarra
  • Banner Thomas, basso
  • Bruce Crump, batteria

Altri musicisti:

  • Jimmy Farrar, voce
  • Riff West, basso
  • Barry Borden, batteria

Discografia storica:

  • Molly Hatchet, 1978
  • Flirtin’ With Disaster, 1979
  • Beatin’ the Odds, 1980
  • Take No Prisoners, 1981
  • No Guts… No Glory, 1983
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