Nel 1991 i Mudhoney pubblicano "Every Good Boy Deserves Fudge", il loro secondo full-length (lo storico esordio "Superfuzz Bigmuff" del 1988 è un mini). Per la precisione viene dato alle stampe in luglio e grazie al suo buon successo il gruppo si candida alla fama interanzionale. Purtroppo dopo due mesi, con l'avvento dei blasonatissimi "Nevermind" e "Ten", le 60.000 copie vendute di "Every Good Boy..." verranno ridotte ad un nonnulla dai milioni di album che venderanno i Nirvana e i Pearl Jam.

Un peccato: i Mudhoney, che sono tra i più rappresentativi e primordiali esponenti della scena di Seattle, hanno da sempre meritato miglior sorte. Sarà perché la loro musica non è mai stata accomodante e più di tanto orecchiabile, sarà perché i quattro, menefreghisti incompromissibili ed inguaribili casinari, non hanno mai avuto il carisma di portavoce generazionali come Kurt Cobain e Eddie Vedder, sta di fatto che i Mudhoney non hanno mai riscosso nemmeno un quarto del successo dei più celebri gruppi di Seattle. Eppure, senza nulla togliere ai precedenti lavori, "Every Good Boy..." è un album notevole perchè presenta un tocco di maturità in più rispetto al passato. Innanzitutto viene ampliato il dispiego di mezzi: è dunque possibile sentire un organo in tre canzoni (Generation Genocide, Who You Drivin' Now, Check-Out Time), un'armonica in due (Move Out, Pokin' Around), una presenza maggiore di slide (assieme all'armonica conferma che il blues fa parte del loro corredo), di chitarre ritmiche pulite ed acustiche in sottofondo. Inoltre il loro stile, benché riconoscibilissimo, suona più vario già dalle prime note, poichè la breve intro strumentale Generation Genocide è quasi un pezzo dark prog, con quel tempo dispari cadenzato e marziale, con quel riff sepolcrale suonato in concomitanza da organo e chitarra, con quel finale forsennato che a momenti ricorda i Van Der Graaf Generator più schizzati: si tratta indubbiamente del brano più atipico in scaletta, però testimonia che il gruppo si è aperto a moltplici influenze, comunque riviste e corrette con il tipico piglio graffiante e piacevolmente insolente.

La seconda traccia, Let It Slide, è una classica tirata à la Mudhoney, uno sfrontato rock'n'roll garagesco, ma il resto delle composizioni presenta delle piccole innovazioni applicate al loro sound, che prima di allora era quasi esclusivamente orientato agli Stooges e al più selvaggio garage dei Sessanta: ecco allora che si possono sentire più tentazioni melodiche (Good Enough, Move Out, Check-Out Time), rimandi ai Sonic Youth (Something So Clear, Don't Fade IV), soste in territori punk (Thorn, Into The Drink e anche Pokin' Around, nonostante l'innesto dell'armonica) e hardcore (Shoot The Moon), addirittura qualche reminiscenza surf (Fuzzgun '91). Ad ogni modo non è estinto il debito nei confronti degli Stooges: sembra proprio una loro canzone Who You Drivin' Now, e a poco conta la presenza dell'organo, e anche Broken Hands li ricorda, con quella semplice sequenza di accordi sviluppata su un climax ascendente di potenza e tensione, con quel tema che parte quieto quasi a costituire una perversa ballata per poi deflagrare in muri di chitarre e rumorismi finali.

"Every Good Boy Deserves Fudge" è un ottimo lavoro e dopo averlo ascoltato viene naturale chiedersi il motivo per cui i Nostri non sono mai divenuti famosi. Mark Arm e soci non hanno mai aspirato a vendere milioni di copie e a ricevere dischi di platino, però la loro musica, così genuinamente oscurantista e caciarona, è una delle più interessanti sfaccettature del grunge. Se a loro tempo il successo l'hanno ottenuto modesti epigoni del cosiddetto "Seattle Sound" come gli Stone Temple Pilots (per non parlare di tutti gli scipiti gruppetti simil-Strokes che di questi tempi infestano le classifiche!), perché non darne un pò anche a band naturali ed autentiche come quella in questione?

Due parole più di ogni altre sono in grado di qualificare i Mudhoney: ingiustamente sottovalutati.

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