"Tutti i film che fanno oggi son di destra/se annoiano son di sinistra" cantava Giorgio Gaber una trentina d'anni fa. Eppure questo film, dichiaratamente di sinistra in un'Italia spostata a destra, non annoia. Certo, non è il Moretti migliore, ma dato che le sue ultime prove non mi erano parse del tutto a fuoco (vedi alla voce "Tre piani") questo "Il sol dell'avvenire" mi sembra un Moretti se non ritrovato sicuramente rinfrancato.

La trama è, senza spoiler, quella di un regista che sta mettendo in piedi un film di cui non è convinto, ambientato nell'Italia degli anni Cinquanta ai tempi della rivoluzione d'Ungheria e di un omino (Silvio Orlando) a capo di una sezione del PCI a Roma zona Quarticciolo (lo stesso dove pochi giorni si è consumato una feroce aggressione ai danni di un indiano) diviso tra l'obbedienza al partito e il malumore che cresce tra gli iscritti. Nel presente la crisi di coppia tra il regista (Moretti) e la moglie (Margherita Buy).

Il film è auoreferenziale in molti punti, la figura del protagonista è il ritratto che Moretti fa di sé stesso, e alla lunga tic e nevrosi di questo complesso regista potrebbero venire a noia, così come le riflessioni sull'Italia di ieri (migliore?) e quella di oggi (peggiore?) non convincono fino in fondo. Ma alcune sequenze sono magistrali, perchè Moretti pare, con questo film, essersi voluto togliere non uno, ma molti sassolini dalle scarpe. La lunga sequenza in cui Moretti tenta di far capire ad un giovane regista che ciò che sta girando, una specie di "Gomorra" di grana grossa, non è cinema e che dovrebbe prendere esempio da Kieslowski (e cita "Breve film sull'uccidere") è da applausi a scena aperta. Così come l'attacco, divertentissimo, a Netflix che non vuole produrre il film di Moretti perchè mancante del "what a fuck".

Ogni tanto si cita un po' troppo dell'altro cinema (il Woody Allen di "Io e Annie" nel breve passaggio di Renzo Piano) e il finale, che qualcuno ha definito felliniano, è affine al Bertolucci di "Novecento", ma non è una summa del cinema morettiano (anche se le battute sui sabot sono molto Moretti style), è, forse, il film di un uomo che tenta di chiedersi quale sia oggi il vero significato di cinema, quale scopo abbia oggi, nell'era delle serie tv tutte così piatte e uguali una all'sltra, puntare ancora sull'oggetto cinema e che senso abbia oggi il proprio cinema. Forse retrò, ma pur sempre acuto. E il pastiche tra vita privata e lavoro appare coeso tanto quanto nel più struggente "Mia madre" (2015).

Attori in stato di grazia (compreso un Orlando che dice "non vedevo l'ora di interpretare un personaggio che si impicca") e tanti volti noti che sul finale compongono un mosaico nostalgico ma non lacrimoso. E l'ultimo frame se lo prende Moretti salutando, idealmente, il pubblico.

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