"Scum", si sa, è oramai storia, un'opera che riluce più del suo significato concettuale che per i contenuti intrinseci, un'opera che nel bene o nel male ha costituito un momento di rottura e di non ritorno nella storia della musica tutta, poiché non si parla solo della pietra miliare del grindcore, ma di un qualcosa capace di assumere una valenza più ampia, come re-definizione del concetto di Estremo e riflessione sul concetto di Limite, tanto da travalicare gli angusti confini del metal ed esercitare una influenza sull'intero panorama musicale, raggiungendo terreni insospettabili come il free-jazz e la musica d'avanguardia in genere (i devastanti Naked City di John Zorn o i Fantomas di Mike Patton non ne sono che gli esempi più lampanti).

Se "Scum", tuttavia, ha il vantaggio di poter giocare sull'effetto sorpresa e, a voler essere severi, apparire come una provocazione fine a se stessa o uno scherzo ben riuscito da parte di brillanti liceali, "From Enslavement to Obliteration" fa davvero paura, poiché con esso si capisce che i Napalm Death non stanno scherzando affatto. Con questo album le intuizioni del predecessore divengono standard a tutti gli effetti, e il grindcore s'innalza a genere, impresa non così scontata come sembra.

Se un genere musicale, di fatto, edifica la propria identità e la propria ragion d'essere sull'atto di approssimazione al Limite, è ovvio che i margini di manovra, a livello stilistico, si riducono all'inverosimile: avanti non si può andare, procedere significa contraddire le leggi della fisica. Tornare indietro, invece, costituisce un rinnegamento del valore cardine (il raggiungimento del Limite), e quindi l'uscita immediata dal genere stesso. Il grind è di fatto un genere così concettualmente evoluto e puro (costituisce in effetti un punto di arrivo) che non contempla alcun tipo di evoluzione che non sia contaminazione, contaminazione del resto che, come si diceva, catapulta irrimediabilmente in altri campi, dall'industrial al noise fino all'elettronica (emblematico è il percorso del progetto Scorn, portato avanti proprio dal teorico del grind per eccellenza: Mick Harris). E' evidente, quindi, che alla luce di ciò non resta che rimanere dove ci si trova, ovvero: in punta di piedi sulla linea che sancisce il Limite.

L'unico modo, pertanto, per non cadere in tentazioni manieristiche ed al tempo stesso rimanere fedeli ai dettami tassativi che il genere impone è capire che il grindcore non è un semplice standard di brutalità da rispettare, bensì un veicolo attraverso cui esprimere la propria urgenza artistica. E seppur stilisticamente molto simile al predecessore (forse, leggermente più estremo), in "From Enslavement to Obliteration" sono i contenuti a convincerci, ed è a quelli che noi guardiamo, poiché adesso siamo ragazzi smaliziati che non si fanno impressionare più tanto facilmente. E "From Enslavement to Obliteration" piace per quello che è, un ottimo disco di musica estrema, un'opera che, secondo il sottoscritto, brilla di una luce che la rende superiore a tutto il resto della discografia targata Napalm Death, passata e futura, una maturità che in "Scum" è solo intuita, un'immediatezza ed un'anarchia che già nel successivo "Harmony Corruption" verranno perdute per sempre.

Mick Harris, Lee Dorrian, Bill Steer, Shane Embury, quattro nomi che a vederli uno dietro all'altro, fanno davvero impressione. Perché c'è solo un modo per andare a mille a l'ora e non risultare ripetitivi: avere i coglioni, chiamarsi Mick Harris e lanciarsi a rotta di collo in continui e imprevedibili cambi di tempo, in rullate micidiali, in stacchi assassini che ti tolgono il fiato. Poi vengono gli altri, la voce paranoica e sfibrata di Lee Dorrian, alfiere visionario e psichedelico della brutalità; la chitarra marcia di Steer, che, fra thrash e hardcore, già odora di quella putrefazione che farà il successo dei suoi Carcass, prossimi ad esplodere; il basso sporco e stralunato di Embury, colui che diverrà il punto di riferimento dei Napalm Death a venire.

Quattro personalità geniali e differenti (basta vedere come proseguiranno i loro cammini) che mettono il loro talento al servizio della brutalità, elevando il grindcore a visione e metafora della società contemporanea. Basti sentire l'opener "Evolved as One", un blues maledetto di Swansiana memoria che ci introduce nel terribile viaggio: i colpi paranoici e lenti della batteria, il basso sordo e dissonante, la chitarra marcia, la voce che spacca il microfono: uno dei momenti più intensi della musica estrema, se non ci credete, sentite Lee Dorrian che ripete allo sfinimento "Your Weak Mind" esplorando i più disparati e disperati registri vocali, come in preda ad un raptus schizofrenico.

Ma si tratta solo del biglietto da visita, dalla seguente "It's a M. A. N. S. World!" ci si getta a capofitto in una folle corsa in cui c'è davvero poco spazio per la meditazione, come del resto succede nella frenesia quotidiana e nel bombardamento di input a cui siamo sottoposti e che ci impediscono di metabolizzare e capire il reale.

Lasciatevi quindi stordire da queste 27 schegge impazzite (un modo di intendere e fare musica che trova il suo apice formale nei due secondi fulminanti di "Dead") fino al tragico epilogo di "The Curse", un messaggio denso di pessimismo e di assoluta mancanza di speranza per un futuro migliore.

Eppure, pur nel suo catastrofico significato, quant'è bello il grindcore: il caos primordiale, le growl impastate e farneticanti che si trasformano all'improvviso in acuti laceranti (come se la rabbia ci sopraffacesse a livelli tali da non permetterci di articolare più parola, come in una vera e propria regressione allo stato primitivo), la furia della batteria che nella velocità si smaterializza e diviene qualcosa di intangibile (un tintinnare di piatti, un ronzio metafisico che ci fa viaggiare alla velocità della luce senza peraltro portarci da alcuna parte), la frammentazione e il senso di instabilità delle non-strutture (che ci dà sgomento e ci rende perplessi, poiché ci mette nell'impossibilità di metabolizzare il messaggio dell'artista, che abbozza senza portare a compimento). Uno stato di cose insito nel significato stesso del monicker Napalm Death: una fine terribile, estrema, data da un fuoco inestinguibile, che non solo ti brucia, ma continua a bruciarti nonostante l'acqua, nonostante il sopraggiungere della Morte. Un annientamento totale, non solo della Vita ma anche e soprattutto della Materia.

Il metal viene quindi superato nella destrutturazione e nell'irrazionalità, come una utilitaria viene sorpassata a sinistra da un treno deragliante che sfreccia sull'asfalto, schianta il guardrail e prosegue la sua folle e auto-lesionistica corsa fuori strada, falciando ogni ostacolo e al tempo stesso annientando se stesso. Una musica impazzita e irrazionale che rispecchia metaforicamente l'implosione del mondo contemporaneo: il caos, l'alienazione, lo stress, la solitudine, la disumanizzazione, la frammentazione dell'Io, l'incapacità di costruire una consapevolezza di sé e del mondo esterno, l'angoscia, la rabbia e la disperazione che ne derivano. Ma altro ancora: l'insubordinazione a modelli comportamentali imposti, il controllo che ci rende impotenti, la manipolazione che ci rende dementi.

C'è poco da fare gli snob del cazzo, il grind siamo noi, la nostra società, i valori su cui essa si regge e l'aberrante sistema economico che li adotta. Hai voglia a mettere in fila i formaggi e mangiarli con il miele di castagne e le martellatine di capriolo...

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