Ormai, ogni volta che vien fuori un nuovo disco dei Napalm Death, avverto qualcosa farsi largo tra le mutande e ripenso al primo approccio che ebbi con la band di Birmingham.

Era uno di quei lunedì scolastici da emicrania post-domenicale quando mi venne riconsegnata dal mio personalissimo pusher musicale quello che era l'unico strumento di condivisione medallara di cui potessi usufruire ai tempi: la cassettina da 90 minuti della FX. Sul lato B c'era scritta una sola parola, ''Scum'' e ricordo che la cosa mi fece andare in bestia il giusto. "Ma chi cazzo sono questi Scum? E poi cosa sarebbe questo discorso che non c'è nemmeno scritto il nome dell'album ed i titoli delle canzoni?".

All'epoca quella mezz'ora di casino mi schifò nel profondo. Non ero pronto. Ok... mi piacevano i Maiden, i Deep Purple, ero in fissa con tutto ciò che faceva tupa tupa e wha wha ma per i Napalm nessuno mi aveva ancora preparato. Era veramente troppo. Inutile dire che ''gli Scum'' scomparvero seduta stante dalla musicassetta e per anni dalla mia vita, almeno fin quando non arrivò anche per me l'esuberanza ormonale, l'internet e quell'insaziabile smania ''even more extreme'' che mi fece annusare un genere tutto nuovo, il grindcore e tutta la sostanziale illogicità che gli gravita(va) attorno. "Scum è IL disco grind?! Aspetta un attimo...ah ma allora...porcodio!!".

Se n'è andato un quarto di secolo dall'uscita di quel pilastro di distruzione e loro, dopo 30 anni di carriera, cambi di formazione da far invidia all'Inter di Ranieri, sbandate alternative/moderniste di fine millennio nonchè dopo la tragica scomparsa del grandissimo Jesse Pintado, sono ancora qui tra noi a terrorizzare i sogni perbenisti della parte più ipocrita della società.

27 Febbraio 2012: esce ''Utilitarian''. Quindicesimo album. Non credo ci sia poi molto da aggiungere quando, lassù in alto, compare il marchio Napalm Death. Una garanzia direbbe qualcuno. Alla fine è ciò che penso anch'io. Per carità, in giro si legge pure di chi ha parlato di sperimentazioni jazz solo perchè in ''Everyday Pox'' per 10 secondi spunta fuori il sax pazzoide di John Zorn o di nuovo corso evolutivo per le spruzzatine industrial piazzate quà e là tra le songs, per i rallentamenti (peraltro splendidi) di ''Fall On Their Swords'' e di ''Circumspect'' oppure semplicemente per le cleans à la Fear Factory di ''The Wolf I Feed''. Mi domando se questi signori abbiano mai ascoltato gli albionici negli anni di ''Diatribes'', ''Greed Killing'' o di ''Inside The Torn Apart''.

Qui c'è la stessa, incompromissoria voglia di frantumare le chiappe dei dischi recenti (''The Code is Red...'' manifesto dei Duemila) con un pizzico di condimento in più e qualche punto di riferimento in meno. L'ormai corazzato mix trita-gengive di grind, death e hardcore uniti all'immancabile dose di devozione, umiltà e di giustizia sociale dei testi sovrastano quel percettibile velo di autocitazionismo che (inevitabilmente) affiora nel songwriting. Impossibile non scapocciare dinanzi a pezzi quali ''Protection Racket'', ''Quarantined'', ''Leper Colony'' o al barbarico terzetto ''Nom de Guerre/Analysis Paralysis/Opposites Repellent'', come altrettanto impossibile sarà per me non tornare a trovarli allorchè faranno tappa di nuovo qui nello Stivale, magari in un circoletto sociale, di sicuro a non più di 15 euri a cranio...

Ennesima lezione di stile.

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