Se dovessi stilare una classifica dei migliori dieci album del folk apocalittico (impresa assai ardua, considerati i labili e confusi confini che circoscrivono il genere), inserirei senza esitazione questo “Beauty Reaps the Blood of Solitude” dei Nature and Organisation.
L’ho inseguito per una vita, l’ho ricercato nei più bui anfratti di ogni fottuto centro civilizzato che ho battuto negli ultimi quindici anni, Londra, Berlino, New York: niente, introvabile. Fin quando, circa un mese fa, con mia grande gioia, ho appreso che l’etichetta tedesca Trisol (sia benedetta la Trisol!) ha deciso di rieditare l’album, inserendolo in un’operazione da leccarsi baffi: il cofanetto “Snow Leopard Messiah” (in realtà un doppio CD). Esso contempla in pratica tutta la discografia del progetto, ossia l’opera sopra citata (edita nel 1994 da Durtro) e l’incompiuto successore “Death in a Snow Leopard Winter”(SLCD, 1998). Con l’aggiunta di due succulente bonus-track: “A Dozen Winters of Loneliness” (originariamente contenuta nell’ EP che portava lo stesso nome, fatto uscire dalla Durtro nel 1994) e “To You” (presente in una pubblicazione senza titolo del 1996, sempre della Durtro).
Senza niente togliere alla provvidenziale operazione, decido comunque di recensire “Beauty Reaps the Blood of Solitude” nella sua veste originaria, adottando l’immagine di copertina con cui uscì nel 1994 (migliore a mio parere di quella della ristampa: decisamente kitsch nel rimescolare statue in marmo e leopardi digrignanti in un tripudio di colori digitalizzati) e limitandomi a valutare i suoi undici brani, i quali vanno a coprire una distanza di circa quaranta minuti. Non molto, ma abbastanza per toccare quelle vette qualitative che il folk apocalittico era ancora capace di solcare nella metà degli anni novanta.
Facciamo dunque un passo indietro: Nature and Organisation, per chi non lo sapesse, è stato il progetto solista di Michael Cashmore, polistrumentista inglese che ha contribuito alle più importanti produzioni discografiche dei Current 93 (e non solo!). Capolavori come “Thunder Perfect Mind”, “Of Ruine or Some Blazing Starre” e “All the Pretty Little Horses: The Inmost Light”, tanto per fare degli esempi, portano la firma indelebile della chitarra di Cashmore. La lista potrebbe andare avanti, ma mi limito a citare questi titoli perché usciti nel periodo in cui fu rilasciato “Beauty Reaps the Blood of Solitude”. E proprio per questa ragione essi costituiscono il parametro più attendibile per inquadrare l’opera.
Ma attenzione: se a rendere appetibile la cosa basterebbero la scrittura ispirata di Cashmore, il suo tocco delicato, la sua poetica inconfondibile, ogni indugio nell’acquisto cadrà nel momento stesso in cui si apprenderà che ad aiutare il Nostro intervengono personaggi del calibro di David Tibet, Rose McDowall e Douglas Pearce. Collaborazioni illustri che danno lustro all’operazione e che giocoforza la avvicinano alla produzione di inizio anni novanta della Corrente.
Nonostante la presenza (anche ingombrante) di grandi nomi dell’ambiente, l’ego di Cashmore non viene comunque scalfito: egli infatti porta avanti con coerenza, ispirazione e grande professionalità quella che è la sua missione stilistica: un folk elegante, malinconico, ma anche luminoso e dotato di luccicanti contorni onirici (ricordiamoci, del resto, che il suo contributo negli album della Corrente è stato rilevantissimo, e che è lecito ritenere che egli abbia più influenzato i Current nella loro direzione artistica che viceversa). Cashmore infatti non perde le sue qualità di compositore, di raffinato esecutore (lo troviamo anche alle prese con mandolino, tastiere, percussioni e glockenspiel) e di accorto arrangiatore, vista la presenza di un ensemble da camera chiamato ad accompagnare le sue sognanti ballate. Un ensemble che si ritaglia inoltre momenti di vero protagonismo nei vari intermezzi strumentali, spesso animati da un rumorismo e da campionamenti di chiara derivazione industriale.
Ed è proprio nel perfetto bilanciamento fra bozzetti da camera e folk da menestrello medievale, fra caos frastornante e intimo lirismo, che il Nostro trova la quadratura del cerchio, mostrandosi piuttosto vicino alla sensibilità del pur assente Tony Wakeford. La forza evocativa dei balletti di violino e violoncello, lo stridere delle corde della chitarra elettrica, il rimbombare marziale delle percussioni richiama infatti più i Sol Invictus piuttosto che le altre eminenze ingaggiate per l’occasione. Le quali, dal canto loro, emergono prepotentemente nei brani cantati: nenie senza tempo che rivolgono lo sguardo anche verso quel folk oscuro che tante volte è stato contemplato dalla scena dark-progressive di fine anni sessanta/inizio anni settanta (punto di riferimento imprescindibile per l’intero movimento).
Come non citare a tal riguardo “Wicker Man Song”, rilettura del folclore inglese affidata all’ugola fatata di Rose McDowall, un brano dal passo gentile che porta con sé un gradevole flavour anni sessanta: sentire il canto graziosamente stonato della musa del folk apocalittico provocherà un vero tuffo al cuore per i fan della prima ora. Ma ancor più potente sarà l’effetto nell’udire le prime strofe di “Bloodstreamruns” recitate da un ispirato David Tibet che non perde l’occasione di autocirarsi (“As I Descended with the Dogs Blood Rising, so then I Ascended to the Thunder Perfect Mind…”): il circolare giro di violino, la chitarra cristallina e il crooning visionario dell’anima dei Current 93 non possono che riportare alla mente lo splendore di un’opera come “Of Ruine or Some Blazing Starre”, che fra l’altro vedeva la luce proprio nel medesimo periodo.
E se tutto questo non bastasse, l’infarto arriverà inevitabilmente con il brano seguente, una “My Black Diary” che è Death in June fino al midollo. Cantata da un fermo e dimesso Douglas Pearce questa tesa ballata di colpo ci riporta ai tempi gloriosi di “But, What Ends When the Symbols Shatter?”: oscure tastiere fanno da contraltare agli arpeggi evocativi di Pearce, che ci consegna uno dei suoi pezzi migliori, impreziosito nel finale dalla voce di Tibet, dai canti eterei della McDowall e dalla chitarra elettrica di Cashmore.
Se “Beauty Reaps the Blood of Solitude” ha un difetto, esso è forse quello di essere eccessivamente sbilanciato sulla prima parte, inanellando i suoi colpi migliori proprio all’inizio. Ma data la bellezza che ammanta tutti e undici gli episodi ivi contenuti, non starei a fare il difficile: faccia parte o meno dei migliori dieci album partoriti dal genere, “Beauty Reaps the Blood of Solitude” ha il merito di fotografare degli artisti al top della loro ispirazione, in una fase in cui il folk apocalittico viveva il suo periodo di massimo splendore. Impossibile sbagliare.
Tornando all’operazione della Trisol, il prodotto è ancor più consigliabile se si pensa al valore delle due bonus-track (la prima un incubo folk/industriale di undici minuti, la seconda una sofferta dedica di nemmeno tre minuti) e soprattutto alla presenza di “Death in a Snow Leopard Winter”: composto da dodici brani strumentali di solo pianoforte ed archi, questo album lasciato incompiuto nell’anno 1998 (ma non è detto che un giorno verrà completato) sonda l’aspetto più intimo del polistrumentista inglese. Esso, avvicinandosi alla musica da camera tout court, richiama inevitabilmente il famigerato “Soft Black Stars” dei Current 93, uscito nel medesimo anno e alla cui gestazione Cashmore stesso partecipò.
Avrete dunque capito che, per tutti coloro che amano (o hanno amato) il folk apocalittico, “Snow Leopard Messiah” costituisce un acquisto imprescindibile.
Elenco tracce testi e video
04 Bloodstreamruns (04:38)
As I descended with the Dogs Blood Rising, so then I ascended to the Thunder Perfect Mind. Great grey bloodspeckled slabs of slate have fallen - this is my vision in the croaking jeering world: All idiotic faces and swollen hearts; in the papers the faces are not real, in the world the faces are not real - but in the Heart of the Hearts the Face is real. The dead die abroad, the crows fly, the wolves fly, and four poorly painted cardboard horsemen sheet over the back of the winds.
They are not legion - but closed. God walked on Earth in those days. Now, still, in my Hearts He walks still.
In the green fields far away there is a solid tree (mother and the Sign she makes). On the brokenhorse zodiac signs, yellow face passes (All the Rainbow her arms were...). All books piled up in dirty heaps, craterlike surface, pitted - Oh, bellissima - Largherana - if the seahorse were golden, colden... Talking back the bloody streams of God's OwnPain: "Why should we have compassion for others, when God Himself has had no pity... on others?" "Take back the bloodspeech", she said to me... (certain colours came from her body; she is alone!
God walked on Earth in those days. Now, still, in my Hearts He walks still.
(And the brokenface of this horizoned world is covered by crystalcross ice; when this whole eyeless world sighs, this eyeless world sighs...)
All the stars are souls each single planet is the lifeflame of the nothingy eternally spark. I cannot believe despite the evidence of one Godeye and one pooreye that this world is God's own bloodred grassgreen blueblack skypied Paradise. When I lay in the arms of one woman I said to her silent: "You will be forever mine though You go as You shall though You diediedie sleep as You shall die I shall love You always between Your bodies I pray that I shall be forever Thine if I say to You Love then Listen You shall be crowned above all."
(God walked on earth in those days
now still in my Hearts
He walks still)
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