"Gli AC-DC non hanno proprio inventato niente" verrebbe da dire ascoltando questo disco dei Nazareth. E considerando che "Hair of the Dog" uscì nel 1975 (anno di definitiva formazione della band dei fratelli Young), gli scozzesi Nazareth escono a testa alta da un oblio durato troppo a lungo.

I Nazareth di Dan McCafferty hanno sfornato nel tempo una quantità esorbitante di album, alcuni davvero irrilevanti; ma è soprattutto nella prima metà degli Anni Settanta che produssero i loro lavori migliori, definendo uno standard di hard-rock che è stato successivamente più imitato di quello evolutosi con band coeve più famose (Deep Purple su tutte). La voce stridente da gatto randagio, la chitarra distorta con cattiveria - almeno per l'epoca - e i riff rivisitati della tradizione r'n'r e blues, conditi con testi certo non da collegiali: una ricetta a cui gli AC-DC e molti altri sono stati debitori.

Certamente i Nazareth non sfoggiavano una tecnica strepitosa e non puntavano su assoli mozzafiato; piuttosto era l'impasto culturale e l'immagine dimessa a dare spessore al loro stile. Di scozzese non avevano poi molto, semmai omologavano un tipo di carattere stradaiolo che si mescolava con fantasticherie e suggestioni avventurose. Basti ricordare la copertina piratesca del'album "Rampant" o quella del capolavoro in questione "Hair of the Dog" su cui campeggiano mostri pipistrelleschi che sembrano una vesrione fumettistica di certe creature dei quadri di Max Ernst. Un biglietto da visita significativo per questo LP che sicuramente rappresenta il loro apice creativo.

Per nulla invecchiato nella sua struttura sonora e canora, il brano d'apertura della title track dice subito tutto sul contenuto dell'opera. Il titolo originale doveva essere il verso ripetuto nel ritornello... a son of a bitch... ma fu poi preferito Hair of the Dog, in unìepoca in cui certi epiteti procuravano ancora grattacapi.

A seguire "Miss Misery", aggressiva e ruvida rockeggiata degna del miglior rock'n'roll americano, e poi la languida ballad "Guilty" che se da un lato mostra il lato meno intenso dei Nazareth (e meno fortunato), dall'altro non fa che seguire una formula rimasta inalterata nei decenni: anche i metallari ogni tanto vogliono il lentaccio.

Attraversando l'album con altri pezzi che sembrano davvero usciti da un disco degli AC-DC, si arriva trionfalmente a quella che reputo la genialata della band: "Please don't Judas me". Ballata lunghissima che fluttua tra sensazioni western e misteri esoterici, con un incipit sinistro contaminato da suoni sintetici e uno sviluppo marziale strapieno di dettagli godibilissimi, su cui la voce di McCafferty strilla struggente il suo meglio. Brano miracolato, che induce a ripetuti ascolti, denso di atmosfere e di stilemi che hanno fatto scuola. Ripreso e coverizzato da gruppi blasonati (su tutti i Metallica) questo pezzo di chiusura è degno cornonamento delle promesse fatte fin dalla copertina. Una perla della storia hard-rock, che vale da sola l'acquisto dell'album.

Bravi Nazareth, in quegli anni. Meno nobilitati di altri esponenti della scena, tengono alto il proprio vessillo grazie a questo "Hair of the Dog"... un disco che promuovo senza esitazione.

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