1978: l’onda lunga del punk è devastante, si appresta a modificare per sempre il panorama musicale confluendo nella new wave, e quasi tutte le rockstar appaiono ormai tronfie e giurassiche. Tranne ovviamente Neil Young. Egli del punk è stato tra i padri putativi, e nel magma creato dalla rivoluzione del '77 sguazza felice, pronto a far risplendere la sua inimitabile cifra stilistica.
Detto fatto. Young torna sulla strada coi fedeli Crazy Horse e mette in scena uno dei più leggendari tour di sempre, estraendo da quella serie di concerti nove inediti che usciranno nel disco in questione. “Rust Never Sleeps” è probabilmente l’opera più significativa del canadese. Diviso in una facciata acustica e una elettrica, codifica alla perfezione i due lati musicali quintessenziali di Neil, tra spettrali ballate e assalti elettrici al fulmicotone. Concepito appunto in un periodo irripetibile, è quindi l’ occasione giusta per far venire al pettine i nodi dell’estetica younghiana, riordinarli formalmente in musica autentica e senza compromessi per renderli infine Arte nella forma più pura.

“La ruggine non dorme mai”: già il titolo centra in pieno una delle ossessioni del buon Neil: successo e declino, e capacità di esorcizzare la decadenza anche fisica tramite la musica. “It’s easy to get buried in the past / when you try to make a good thing last” aveva ammonito Neil in uno dei versi più significativi del capolavoro “On The Beach”.
La prima facciata di “Rust Never Sleeps” riprende e dilata con lucidità questo tema. Il primo pezzo è "My My, Hey Hey (Into The Black)". Mitizzato da Kurt Cobain, che citò il verso “It’s better to burn out than to fade away” nel suo messaggio d’addio, sintetizza mirabilmente il circolo vizioso dello show business. Quasi blasfemo nell’accostare Elvis ai Sex Pistols ("The King is gone but he’s not forgotten / Is this the story of Johnny Rotten?"), Neil riconosce nel punk la forza vitale che manderà avanti il canovaccio rock and roll. Logico passo successivo è “Thrasher”. Su una melodia cristallina, l’uomo dell’Ontario forgia il suo testo più intenso e descrive in un crescendo poetico da brividi la nascita dell’ispirazione artistica e il suo percorso in tal senso in mezzo alle rovine dei sogni della generazione di Woodstock, sinonimo di morte creativa (“where the vultures glides descending” ). Omaggia i caduti (“I searched out my companions / Who were lost in crystal canyons / When the aimless blade of science / slashed the pearly gates” oppure “I burned my credit card for fuel / heading out to where the pavement turns to sand / with a one way ticket to the land of truth and a suitcase in my hand / how I lost my friends I still don’t understand“), satireggia amaramente gli ormai imbolsiti protagonisti di quell’epopea (“They were lost in rock formations or became park bench mutations”, dedicato ai suoi ex sodali Crosby, Stills e Nash) per trovare infine salvezza nella musica ("When the thrasher comes I’ll be stuck in the sun / like the dinosaurs in shrines / But I’ll know that time has come to give what’s mine").
“Ride My Llama” e “Pocahontas” riprendono poi un altro celebre archetipo younghiano, quello degli indigeni americani. Specialmente “Pocahontas” lambisce lidi quasi letterari, ed è forse la ballata per eccellenza nel repertorio di Neil. Struggente e vivido ritratto di un’America autentica e tradita, è la conferma che la chiave per combattere i fantasmi evocati dall’album risiede nell’immaginazione e nella sua traduzione in Arte. Dopo la deliziosa “Sail away”, scheggia impazzita proveniente dal mondo di "Harvest", arriva impetuosa la seconda facciata.
Sono 4 brani soltanto, ma così devastanti da giustificare la co-intestazione del disco a Ralph Molina e soci. La copertina di “Rust Never Sleeps” è del resto eloquente, con quegli enormi amplificatori sullo sfondo. Con la rivoluzione punk in atto, non poteva che esserci un delirio da feedback. Apre le danze “Powderfinger” e qui Neil riesce nell’impresa di superare il suo maestro Dylan, creando un’epopea più memorabile di “Like a rolling stone” . Un lirismo sublime detta legge, dipingendo uno scenario di gioventù violentemente strappata in una società isterica e malata. Eccellenti sono anche “Welfare Mothers” e “Sedan Delivery”, allucinati e corrosivi ritratti dell’America post-Vietnam.

La chiusura spetta alla infernale reprise elettrica di “Hey Hey, My My (Into The Black)”.
Probabilmente è questo il brano più influente - via Sonic Youth e Dinosaur Jr – sulla generazione grunge. La sezione ritmica di Molina e Talbot martella come le è consueto, mentre le chitarre di Sampedro e Young mitragliano inesorabili al grido di “Rock and Roll will never die” .
Epocale è ancora oggi la parola idonea a definire “Rust never sleeps”.

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