Ascoltare Flipper è come entrare in un sogno in cui la storia della musica ti travolge tutta insieme. Non è un disco che si ascolta distrattamente: è un luogo dove restare, un labirinto in cui passato, presente e memoria si sovrappongono. La voce di Claudio Milano è il centro pulsante, ma non canta nel senso classico: evapora, si deforma, si moltiplica, ti attraversa e ti costringe a stare sveglio. In quei momenti non puoi non pensare a Demetrio Stratos e alla sua Evaporazione, ma anche a Chathy Berberian, con la sua libertà totale, la capacità di trasformare la voce in strumento, corpo e follia allo stesso tempo. Milano raccoglie quell’eredità e la fa sua, spingendola ancora più lontano.

Luciano Berio (il disco esce in occasione del centenario della sua data di nascita) è un filo invisibile che attraversa tutto il disco. L’aria inedita Quando ricordiamo (Berio/Calvino) su CD è un punto di riferimento, ma l’eco delle sue Folk Songs respira in ogni frammento: l’idea di deformare, sovrapporre, contaminare epoche e stili guida tutto il lavoro. Milano prende Monteverdi, Purcell, Fauré, il jazz di Summertime, Black Is the Color e Estate di Bruno Martino e li fa correre, sparire e riapparire come ricordi deformati, mescolando vita personale e Storia collettiva in un medley che a volte sembra un flusso di coscienza musicale.

Ci sono anche momenti in cui l’ombra degli Area emerge prepotente: quei frammenti improvvisi, anarchici e anarchizzanti, ti ricordano che la musica può ancora essere selvaggia, politica e libera. L’elettronica di borda non accompagna, sfida, disorienta, crea ponti instabili tra passato e futuro. La paura è ovunque, ma non è spettacolare: è sottile, diffusa, strutturale. È la paura di una storia che ti scivola tra le mani, di un mondo che non puoi controllare, eppure Milano la affronta cantando, trasformando il timore in energia creativa.

Flipper non è un disco che finisce quando lo spegni. Ti attraversa, ti lascia con la sensazione di aver camminato per decenni di musica e storia in cento minuti. È un’esperienza di coesistenza: epoche, voci, stili, memorie si contaminano senza mai perdere identità, e proprio in questo caos controllato emerge una forma di intensità rara e irrinunciabile.

Alla fine, quando il disco si chiude, resta la voce di Milano che evapora, Stratos e Berberian che ti sussurrano dall’ombra, l’eco di Berio che ti accompagna e la consapevolezza che la musica, anche oggi, può ancora essere radicale, necessaria, e profondamente viva.

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