1990. Brasile. Piove di nuovo sul martire che ha deposto la corona da poco. Il cielo lacrima ancora, perseguita il figlio appena riconvertito. Una contraddizione. Una delle tante.
La linea che separa il sacro dal suo contrario è inafferrabile. Lo sa bene Nick Cave, cantautore e paroliere, peccatore e mistico, abitatore del sottosuolo e scalatore del cielo. Come si chiama il contrario del sacro? Cercate la parola: non la troverete. Magari potrete adattare allo scopo termini che non sono il contrario del sacro, ma invece lo presuppongono: blasfemo, oppure laico, profano... Il sacro non ha contrario. E' già in sé una linea di separazione, un confine ambiguo e precario che separa e unisce due contrari: disordine e ordine, niente e tutto, diabolico e divino.
Il disco oscilla su quel confine: i fans più intransigenti dell'epoca lo snobberanno per le sonorità troppo rilassate e pulite, abituati alle scorribande rumorose negli inferi degli album precedenti (tender prey su tutti), salvo poi riesumare quest'opera nel corso degli anni come un vecchio cadavere dall'armadio. Ma è l'autore australiano qui ad essere cambiato: si è appena disintossicato dall'eroina, e dopo l'orgia di realtà negative è tangibile il religioso bisogno di un riscatto o la volontà di pronunciare con chiarezza le parole alte del dolore.
I Semi Cattivi traghettano così il "re inchiostro" in un purgatorio di struggente pentimento, assorto nel disperato tentativo di recuperare brandelli di significato che un'opera d'arte deve avere e che spesso non si riesce ad afferrare. Lo accompagnano con arrangiamenti maestosi e altisonanti, come un figliol prodigo che si era perduto in abissi ancestrali, ma che ora ritorna in ginocchio tra inni maestosi e cori commoventi che aprono il suo calvario personale tra i fantasmi che lo perseguitano. La cerimonia prosegue tra danze arcane e lamenti struggenti, solenni, per poi concludersi con una benedizione che sa d'amore, ma affonda il coltello nella piaga come un giudizio universale da cui non si può scappare.
Amen.
Precipitano il divino e il diabolico, stanno l'uno nell'altro: ognuno deve funzionare come uno specchio sulla cui superficie si riflette l'altro. Si deve riflettere invece un desiderio impossibile di unità, di redenzione. Un desiderio che è sorretto da una coscienza di colpa più plumbea e mortifera come mai prima d'ora, che annega nel crepuscolo di un'assoluzione da rincorrere.
Un album dalla longevità non eccezzionale, forse perchè si sente il morboso bisogno di consumarlo in fretta: la seducente tentazione dinanzi ad un'opera perfetta; forse troppo perfetta.
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