Per parlare di Cenizas, la prima parola che passa per la testa è ayahuasca. Tra la ricerca sonora di Nicolas Jaar e la liana degli spiriti, l’infuso a base di piante ed erbe amazzoniche dagli effetti visionari, c’è un legame. Un potere curativo. Una cura che ha a che fare con l’anima, incastonata in un viaggio spirituale. E se l’ayahuasca era usata dagli sciamani dell’Amazzonia, Jaar è uno sciamano della musica elettronica.
Per il ragazzo classe 1990 le ceneri -questo significa cenizas- dispiegate sotto forma di onde sonore sono il frutto di un’enigmatica ricerca introspettiva. Sulla sua psiche e la sua stessa vita.Cenizas è una lettera a cuore e mente aperta, come scrive sul suo sito nel presentare l’origine del progetto:
“For a period of time, I also quarantined myself alone somewhere on the other side of the world to be able to work on music for months on end. I didn’t want to keep feeding the system. Its hunger, its past. I didn’t want to work from ambition. Where I would work to impress first, and love second. I wanted presence first. Love first.”
Guarire è un percorso lento e solitario alle volte. E non è un caso che la sua voce baritonale riecheggi tra i campionamenti sepolcrali di “Hello, Chain” intimando "patience is our virtue".
E se di echi dobbiamo parlare, tutto quel che Nicolas ha assorbito nella sua giovane carriera viene destrutturato, riuscendo ad emergere in profonda lontananza, per comporre i tasselli di una guarigione personale. Per tornare alla cura con l’ayahuasca, dopo la sua preparazione si è soliti berla in una cerimonia. E anche in questo Jaar connota Cenizas di un valore rituale. Lo sentiamo sospirare in apertura "say you’re coming back", per poi scomparire nella solennità di “Menysid” con le sue campionature etniche e metalliche, come se il rito ancestrale iniziasse.
Si entra in strutture che ricordano cicli di vita. Fin dall’isolamento proferito in lingua madre "en las cenizas vamos a armar, no saber nada, es mejor" che evidenziano l’urgenza e la necessità di confrontarsi con chi si è, prima di riaprirsi al mondo. Non si può scappare e il sinuoso sax labirintico di “Agosto” che ti imbriglia costringendoti a seguirlo nelle sue tinte free-jazz - Jaar cita anche Coltrane come influenza artistica- ne è la prova. È uno sprofondare che gioca con le porte della percezione più recondite, per usare termini cari ad Huxley.
Inconscio e subconscio si scontrano e il dolore è il ciclo fondamentale con cui si combatte. Un ciclo denso affidato a "Mud" e al suo tribalismo apocalittico "skies and all bleed, and no one can hear, the cry from the ground."
Per aprirsi ai cicli finali di Cenizas occorre liberarsi di tutte le impurità interiori, aspirando a svuotarsi completamente, Vaciàr” -svuotare-, per l’appunto. Scindere il vecchio, con il nuovo.
Che pare essere anche una metafora della produzione di Jaar. Evolutasi in un concentrato di tessuti ambient minimali e atmosfere sincopate che trovano il coronamento in “Faith Made of Silk”. Un crescendo fragile, ma liberatorio a riprova di riuscire a vedere un orizzonte attorno a sé: "a peak is just the way towards, a descent, the forces on the hill, manifested by what you perceive as wind, look around not ahead."
Forse non sarà la fine del tragitto di Cenizas, forse sì. Forse è un’ulteriore occasione di meditazione. Un valore che lo stesso Jaar si è premurato che chiunque ascolti l’album possa provare.
Un significato intenso, più attuale che mai. Che ci ricorda come in qualsiasi ciclo vitale ci si possa trovare, le porte per uscirne sono da cercare anche nell’arte.
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