[Contiene anticipazioni]

Semi-citando il buon Faber, quella di Frances è una «dolce inconsistenza», una vacuità dell'animo che si esprime in un labirintico intrecciarsi di dialoghi zoppicanti, di rapporti sfuggenti, di legami usa-e-getta; l'incompiutezza è vista come tratto peculiare della protagonista ma anche come cifra ultima della sua generazione, ovviamente in gradazioni differenti. In una delle ultime sequenze della pellicola, Frances e la migliore amica Sophie, obnubilata dall'alcol, chiacchierano a letto prima di dormire e si lanciano in sogni sfrenati; il mattino dopo però Sophie, tornata in sé, le lascia un biglietto e se ne va senza salutarla, incalzata nuovamente da una vita dedita ai doveri. Ma Frances credeva davvero a quei sogni irrealizzabili.

La vita di Frances è un sogno in fieri, che non si realizza mai pienamente perché è la sua stessa personalità ad essere sempre incompleta. Sequenza rivelatrice è quella finale, in cui una Frances almeno parzialmente realizzata vive in un suo appartamento e deve preparare un talloncino di carta col suo nome per la casella della posta: il suo cognome Halladay però non ci sta tutto e viene troncato in Ha. Certo, il tema dell'immaturità è presente, ma non si può banalizzare e ridurre tutto ad unum: anche la Frances più matura della parte finale è una meravigliosa contraddizione in termini, un capolavoro di incompiutezza: il suo vero sviluppo caratteriale non è dato dall'eliminare le sue fragilità, ma dall'accettarle, o meglio dal capirle e farne un credo, una scelta di vita: la frase che dice a Benji ne è simbolo, «Mi piacciono le cose che sembrano errori».

Questo elogio dell'imperfezione, del continuo mutare e trasformarsi senza che in realtà nulla cambi davvero è espresso con una leggerezza che pare impossibile per chi non ha visto il film. L'opera di Baumbach merita quindi un plauso ulteriore perché in 86 minuti leggerissimi costruisce un ritratto bellissimo, totalmente anti-retorico, profondamente post-moderno nel suo svuotare di validità tutte le forme cristallizzate e ormai anacronistiche del Bildungsroman. Quello di Frances non è in realtà un percorso progressivo, ma piuttosto un vagare caotico nel labirinto della sua stessa personalità.

Tre elementi meritano poi una sottolineatura:

1 - L'uso della cinepresa pesca benissimo dal miglior Woody Allen, con inquadrature statiche e personaggi che entrano ed escono dal campo visivo, dialoghi che evitano il capo-controcampo in favore della compresenza, un lavoro sottile ma decisivo nella costruzione dell'inquadratura, con pochi elementi scenografici giocati benissimo e una prossemica tra i personaggi mai banale: favolosa la sequenza in cui Frances fa esercizi ginnici tra cui una verticale mentre discute con Sophie.

2 - La costruzione di dialoghi che risultano spontanei e stupidi ma al contempo massimamente calibrati e significativi di uno status di incertezza costante, un limbi di immaturità che attanaglia una generazione, sempre ingarbugliata in relazioni sentimentali intricate e utilitaristiche (ci si scopa a vicenda). Le battute a casaccio di Frances sono vuote ma simboleggiano una vacuità che è condizione esistenziale, quintessenziale della sua persona.

Le parole dei personaggi servono anche a tracciare l'intrico dei rapporti e delle contraddizioni che le immagini e la messa in scena rifiutano di rappresentare; tutti si gioca su sequenze dialogiche quasi sempre in interni, dove vengono sondate le trame assurde delle vite dei vari personaggi (Lev e Benji fanno qui la parte del leone). La vita appare quindi avviluppata in un bozzolo verbale divertente perché spesso insensato e paradossale, ma in verità anche soffocante; la scelta di non mostrare la vita che c'è fuori dai dialoghi rende questi ancora più incisivi e capaci di deformare ogni cosa. Non contano tanto i fatti, quando la versione che le persone danno di essi agli altri. Frances si reinventa continuamente nella seconda metà del film.

3 – L'interpretazione della protagonista Greta Gerwig è stupenda perché gode della scrittura dell'attrice stessa che trova le battute giuste per esemplificare il non-sense e l'impotenza di un'esistenza limbica; non è da meno però la componente fisica della sua prova, che contribuisce non poco a plasmare un ritratto a tutto tondo. La scarsa logicità dei suoi discorsi si intreccia ad una mimica facciale sfuggente, in precario equilibrio tra cialtroneria e drammaticità, il gesticolare insistito degli slanci estroversi si contrappone all'immobilismo dei momenti di riflessione (o presunta tale), quando Frances è solita fumare.

Un ritratto memorabile che contempera la dimensione individuale (mai riducibile a schema) ad un senso di impotenza invece generazione, o comunque la coscienza della propria subalternità sociale e assieme l'indifferenza nei confronti di questa. I giovani sono tormentati dalla mancanza di danaro ma ciò non di meno spendono quel poco che hanno in modo irresponsabile: Benji non riesce a sfondare ma pensa a comprare occhiali rari su internet, Frances non può pagare l'affitto ma va a Parigi (a fare cosa poi?). Emblematica in questo senso la frase che la protagonista rivolge a Lev: «Mi hanno rimborsato delle tasse, usciamo a cena?». Se la dimensione economica è paradossale, quella sentimentale è completamente irrisolta, franta in troppe sotto-trame volutamente complessissime per essere anche minimamente compresa. Resta l'unica certezza dello sguardo innamorato di Frances verso la sua, con definizione adolescenziale, «migliore amica» Sophie. «Siamo come una coppia di lesbiche che non fanno più sesso». Chapeau!

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