Ecco il nuovo film del prolifico Noah Baumbach. Sceneggiatore spettacolare, oltre ai suoi film ha scritto anche cose superbe per Wes Anderson come Fantastic Mr. Fox. Questo Mistress America conferma la bontà di Baumbach in fatto di scrittura ma complessivamente si mantiene ben distante dallo stupendo Frances Ha (2012) e non eguaglia nemmeno Giovani si diventa (2014).
Si continua ad esplorare il tema generazionale, ma tutto sommato non si riesce ad aggiungere granché né al confronto tra generazioni più o meno distanti, né al ritratto dei giovani di oggi. Il raffronto riguarda questa volta una donna di trent’anni (Brooke) e una di diciotto (Tracy); non ha quindi le implicazioni del precedente film perché gli anni di differenza sono solo una decina («Siamo quasi coetanee»).L’affresco sul mondo giovanile continua piacevolmente, ma risulta decisamente meno approfondito del solito perché il singolo ritratto (di Tracy ad esempio) viene penalizzato in termini di spazio da una galleria di personaggi simpatici ma molto simili a delle macchiette.
Sembra quasi un film per rifiatare e chiarirsi le idee, un'opera di consolidamento per confermare a se stesso di saper fare bene “quella cosa lì”. Ed è innegabile che Noah ci sappia decisamente fare con la commedia brillante, con personaggi perfettamente imperfetti, con dialoghi frenetici ma chirurgici nello scodellare gli argomenti. Un buon lavoro, un esercizio di stile positivo, che però non riesce a replicare gli esiti migliori del passato. A volte l'intreccio di dramma e ironia risulta un po' troppo fitto, quasi schizofrenico nel voler continuamente accostare spunti esistenziali e risate intelligenti.
I personaggi sono sicuramente interessanti, con difetti ben definiti e non scontati, ma tutto sommato risultano meno freschi del solito e un poco sacrificati, soprattutto nella seconda metà, per dare invece spazio a un quadretto collettivo sicuramente gustoso, divertente e riuscito, ma certamente meno memorabile dei ritratti a cui Baumbach ci aveva abituato. La caratterizzazione non così efficace emerge lampante nel finale, quando latitano le idee e sembra che le due protagoniste tirino le somme un po' a caso, quasi come in una supercazzola. L’importante è non smettere mai di parlare.
Resta innegabile la capacità di raccontare i fallimenti in modo leggero, come tappe necessarie della vita. I protagonisti di Baumbach si scontrano con un sacco di ostacoli ma non si perdono mai d’animo: non si scivola mai nel drammone, c'è sempre una vena di leggerezza ironica a priori oppure una lettura quasi filosofica, che è poi uno dei grandi messaggi del regista: anche fallendo si cresce, la bellezza della vita non è data dalla perfezione. Fallire può essere lo stimolo a ricominciare da zero, farcela in qualcosa può invece farci capire che vogliamo qualcos'altro.
Greta Gerwig è funzionale al personaggio egocentrico e strambo di Brooke, ma la sua prova non è particolarmente entusiasmante. Squisita invece Lola Kirke, che esprime con gran tenerezza tutti i dubbi e le emozioni della giovane Tracy. Il cast è molto buono e ben selezionato. Lo stile non è ricercato come in Frances Ha, ma si nota comunque qualche gioco con le inquadrature: alternanze quasi ritmiche oppure dialoghi alleniani con personaggi che entrano ed escono dall'inquadratura. Magnifica la fotografia che dà una patina molto anni Novanta.
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