“Lucifer”, pubblicato nel 2003, è il terzo album uscito a nome :Of the Wand and the Moon” e conclude una trilogia iniziata con “Nighttimes Nightrhymes” e proseguita con “:Emptiness:Emptiness:Emptiness”: una triologia che intendeva mettere a lucido paganesimo e mitologie nordiche per poter guardare ed interpretare gli sconsolanti “tempi moderni”, in linea con quanto da sempre patrocinato dal folk apocalittico, ma con la variante intrigante data dalla “danesità” del suo interprete.

"Lucifer" è l'anello debole della terna, una terna che nei due lavori precedenti aveva saputo affascinare, nonostante la proposta del buon Kim Larsen (l'uomo che sta dietro al progetto) non fosse delle più originali. In questo caso non ha neppure più senso parlare di plagio (da sempre la musica degli :Of the Wand and the Moon: è spudoratamente vicina ai Death in June del paradigmatico “Rose Clouds of Holocaust”), poiché qui ci si muove negli scialbi territori dell'auto-plagio più spudorato. Pertanto “Lucifer” niente aggiunge a quanto oramai messo a punto negli album precedenti, semmai toglie qualcosa, affondando ulteriormente la lama nel minimalismo più oltranzista, spingendo la musica di :Of the Wand and the Moon: verso una forma più elementare di cantautorato (i pezzi si basano quasi esclusivamente sul binomio voce/chitarra), pur tuttavia ancora circoscrivibile all'interno dei confini del genere.

Eppure a me Kim Larsen piace, e qui scopro le carte: ipoteticamente sdraiato su un lettino, oltre la figura severa del mio psicoanalista, mi trovo costretto ad ammettere che Kim Larsen mi piace (e molto) nonostante il mio Super-Io continui a spiegarmi che la sua musica non possiede niente di strabiliante.

Mi piace per le atmosfere che il nostro danese sa tessere, intime atmosfere notturne da falò scoppiettante nel boschetto, atmosfere ataviche che riportano le lancette dell'orologio secoli indietro, atmosfere pregne di un'universalità che sembra essere patrimonio di ogni uomo su questa terra.

Eppure Kim Larsen non riesce a tirare fuori il capolavoro della vita. “Nighttime Nightrhymes” poteva esserlo, poiché è senz'altro il suo lavoro più ispirato, ma è manchevole di qualcosa: forse a mancare era proprio la voce di Larsen, che preferiva adornare le sue composizioni con un anonimo e stucchevole sussurro che finiva per rovinare le pur buone intuizioni che pervadevano i suoi brani (scelta concettualmente giustificabile considerato che etimologicamente parlando il termine Rùn significa “segreto, mistero”, e il verbo Raunen “sussurrare, bisbigliare”). “Emptiness:Emptiness:Emptiness” aveva, da questo punto di vista, compiuto un passo in avanti, essendo depositario di una “vera” voce, seppur terribilmente monotona e lamentosa. Peccato che poi nel complesso l'album peccasse di un'eccessiva prolissità, a causa della sua estenuante durata e in particolare di un paio di brani dark-ambient tutto sommato evitabili.

"Lucifer" ha una voce ed accorcia i tempi, ma ahimè viene penalizzato da una stanchezza compositiva che abbassa il livello complessivo del lavoro.

Peccato, poiché si era partiti bene con la titletrack, un brano che mantiene un saldo legame con gli episodi più riusciti del lavoro precedente: voce calda e suadente, fascinosi arpeggi persi nel buio pesto della notte più disperata, un cantautorato che conserva un'alta devozione all'enigmatico mondo delle rune. Anche i pezzi che immediatamente seguono non sono malaccio: “Naer Skòg Naer Fjollum” e il suo arcaico flauto traverso; “Megin Runar Followe thy Faire Sunne” forte dei ricami di una sognante chitarra elettrica; “Unhappy Shaddowe”, robusto brano folk sorretto da un arpeggio incalzante e più che mai coinvolgente; “Time Time Time”, rinforzata dalle lievi carezze di una fisarmonica; “Let It Be Ever Thus”, infine, epica nel suo incedere grazie agli arrangiamenti di violoncello e flauto e resa travolgente da un giro di chitarra che evoca ancora una volta il sempiterno fantasma di “Rose Clouds of Holocaust”. Pur non gridando al miracolo, ci troviamo al cospetto di un onesto e sentito folk apocalittico in tipico stile :Of the Wand and the Moon”, che vede l'unica novità nella pressoché totale assenza delle tastiere, in passato utilizzate con maggiore generosità.

Questi primi sei brani costituirebbero quindi la perfetta prima metà di un buon album; purtroppo il meccanismo s'inceppa, Larsen commette un inspiegabile suicidio artistico: i quasi dieci minuti di “Reficul II” (immancabile traccia ambientale) sono qualcosa a dir poco tediante, mentre il reprise per sola voce della titletrack chiude all'improvviso l'opera nella perplessità e nell'imbarazzo generali. Ma come, tutto già finito? L'impressione è quindi quella di un album incompleto, “grazioso” nella sua prima parte, buttato via nella sua porzione conclusiva. Era quindi meglio pubblicare un EP? Domanda che non vale nemmeno la pena di porsi, poiché al di là della forma (quella di un “corpo orrendamente mutilato”), nella sostanza è il Kim Larsen artista che delude, bravo forse nell'edificare le consuete atmosfere, ma imperdonabile dal punto di vista creativo, come se il completamento della sua trilogia fosse solo un dovere da svolgere, un mero atto burocratico.

Se ne renderà conto il nostro Larsen, e già con il successivo “Sonnenheim” saprà imprimere una svolta significativa al suo progetto, spostandosi su una dimensione maggiormente "policromica" da un punto di vista stilistico ed umorale, ma soprattutto recuperando la sua originaria ispirazione.

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