Sei anni di silenzio separano il nuovo “The Lone Descent” dall'ultima testimonianza discografica targata :Of the Wand and the Moon: che era stata “Sonnenheim”. E non sono pochi, sei anni, se si pensa ad un artista come Kim Larsen che dal 1999 al 2005 aveva saputo dare alla stampe una cosa come quattro album ed un EP.

Questo sospirato nuovo lavoro del 2011 fa quindi sperare, considerato tutto il tempo che il Nostro ha avuto a disposizione per raccogliere energie ed ispirazione, in un ritorno in grande stile, e devo dire che non tutte le speranze sono andate deluse (e i dubbi c'erano!, dati gli alti e i bassi a cui il Nostro ci aveva abituati).

Larsen non è più un artista di primo pelo, ma nella sua pur nutrita discografia latitava ancora il Disco della Vita, fatta eccezione per il debutto “Nighttime Nightrhymes”, che fino a ieri risultava ancora essere la sua opera più riuscita. Ma a questo “The Lone Descent” l'appellativo di “disco della maturità” può anche calzare, se non altro perché, pur non trattandosi di un capolavoro assoluto, sa mettere insieme tutti i pregi degli episodi precedenti (il brillante songwriting del debutto, la maestosità e l'eleganza di “:Emptiness : Emptiness : Emptiness:”, l'intimo raccoglimento cantautoriale di “Lucifer”, la policromia e la coralità di “Sonnenheim”), evitandone accuratamente i difetti (l'eccessiva somiglianza dei brani fra di loro e il senso di noia e monotonia che ne derivava), il tutto in un ottica più personale, entro la quale Larsen riesce finalmente a scansare le accuse di plagio (Death in June in primis).

L'introduzione marziale a base di percussioni e dissonanze è quindi un falso allarme: l'album riesce nel complesso a mantenere fede alla descrizione che sul sito ufficiale ne anticipava i contenuti, inquadrandolo come l'album più “malinconico e sixties” mai scaturito dalla penna di Kim Larsen. Ed infatti la spericolata opener “Sunspot” ha un non so che di Mark Lanegan, tanto da palesare fin dall'inizio l'intenzione degli :Of the Wand and the Moon: di porsi sulla medesima scia degli ultimi lavori di act quali Rome e Spiritual Front, che hanno saggiamente scelto la via di contaminare il proprio sound con elementi più propriamente rock e folk-cantautoriali, e con fumose ambientazioni noir-cabaret.

Ma sempre di folk apocalittico si parla, e la successiva (splendida – a mio parere la migliore) “Absence” è lì a dimostrarlo: un folk cosmico che riesce nell'intento di gettare un ponte immaginario fra le plumbee atmosfere di un album come “Rose Clouds of Holocaust” e il fascino onirico di un “The Dark Side of the Moon” (e che bello quell'assolo di tromba che galleggia irreale fra arpeggi impalpabili, armonici di chitarra e fluidi tappeti di sintetizzatori!). Ed è proprio la ricercatezza degli arrangiamenti (chitarre, basso, percussioni, tastiere, piano, archi, fiati, voci femminili e chi più ne ha più ne metta!) che decreta paradossalmente il salto di qualità della solitaria discesa di Kim Larsen: “The Lone Descent” è un album iper-prodotto, un sentiero che si articola in undici appassionate confessioni, undici splendide ballate spesso anche piuttosto lunghe (si toccano vette di otto minuti!), dove misantropia e psichedelia procedono a braccetto, ed un nutrito stuolo di musicisti (cito soltanto il percussionista John Murphy, già noto per le sue svariate collaborazioni, fra cui spiccano ovviamente le sue comparsate in casa Death in June e Current 93) è chiamato a conferire spessore alle altrimenti scarne partiture della più tipica poetica del progetto, da sempre orientata verso la produzione di atmosfere intime e pregne di pathos.

E così viene fuori che Kim Larsen, non snaturando eccessivamente il proprio sound, ci consegna il suo l'album più melodico, vario, scorrevole di sempre, dove l'eco vago di band e cantautori degli anni sessanta (e non solo) va a mitigare una visione artistica che vede la musica come mezzo per veicolare intimismo e nostalgia per un mondo estinto, magico e misterioso, che si pone come antitesi della contemporaneità ed al contempo come critica socio-esistenziale alla sua vacuità. Percorso di emancipazione che si estrinseca anche a livello di liriche, mai così sofferte ed auto-biografiche, che ci consegnano finalmente il Kim Larsen Uomo, non più artista di serie B, non più clone di Douglas P., non più costretto entro gli angusti ranghi delle tematiche da sempre trattate, riguardanti mitologia, credenze e tradizioni del nord Europa (percorso esaurito con “Lucifer”, scialbo atto terzo di una trilogia di album che esigeva un completamento concettuale a tutti i costi, anche a scapito della riuscita finale del prodotto, e di cui “Sonnenheim” ne era stata una incerta appendice).

E così, accanto a magistrali ballate apocalittiche, saggi sfocati di una lucida percezione di una assoluta decadenza (e menziono solo l'avvolgente “Tear It Part”, che richiama da vicino l'inarrivabile “Luther's Army” del maestro Pearce, e “Immer Vorwarts”, impreziosita dall'immancabile fisarmonica paganeggiante), troviamo piacevoli sorprese come i tempi dispari e i beat elettronici che incalzano la goticheggiante “A Pyre of Black Sunflowers”, o il battito del pianoforte anni cinquanta che anima la quasi allegrona “We Are Dust”, o il pizzicato di chitarra che tratteggia un cantautorato epico à la Johnny Cash di “Watch the Skyline Catch Fire”. Per non parlare del finale mozzafiato che riserva l'entusiasmante title-track, che nasce (eresie a parte) come una cavalcata in stile “Heroes”, per estinguersi nel fragore di un crescendo apocalittico che trova pochi eguali all'interno della scena neo-folk.

Ed anche se il latrato cavernoso di Larsen rimane la croce e la delizia dell'intera operazione (suggestivo a tratti, soporifero in altri, anche se poi il Nostro, poerello, ci prova ogni tanto a cantare per davvero), a stupire è la recuperata freschezza nella scrittura che anima tutti e undici gli episodi qui contenuti, anche quelli più canonici e tributari del folclore europeo più arcaico, come la pausa ambientale a base di archi ed oscuro recitato di “Is It Out of Our Hands?”, o la clamorosa auto-celebrazione dell'intenso brano conclusivo “A Song for Deaf Ears in Empty Cathedrals”, l'episodio più prossimo al passato del progetto.

Questa volta, c'è da ammetterlo, il piccolo Larsen (non più così piccolo) sembra avercela fatta, e “The Lone Descent”, che pure ha il tempismo di offrirsi alle nostre orecchie in un periodo di certo non costellato da memorabili uscite discografiche sotto la voce folk apocalittico, costituisce una rinfrancante boccata di aria fresca per gli tutti amanti del genere. E non solo...

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