"Io dormivo. Mia madre andava a lavorare presto. Arrivava l'una ed ero ancora a letto. Ricordo che mi alzavo, vestivo, prendevo la borsa con dentro i libri del giorno prima ed uscivo dalla finestra della mia stanza, mentre mamma entrava dalla porta. Mamma si fidava di me"
Sopra la cassa dell'Interzona, una grande cartina geografica in plastica o polistirolo, a due o tre metri da me, segna i centri di spedizione di generi alimentari che, forse nel dopoguerra, ma forse anche prima, arrivavano a Verona da tutta Europa: gli ex mercati generali come il centro di un mondo ipotetico, che aveva come sue periferie e terminali Parigi, Budapest, Vienna, Copenhagen, Stoccolma, Marsiglia, Bordeaux, Helsinki. Chi ha segnato Helsinki ha sbagliato, perché la mette nel Baltico, penso attorno a Riga o giù di lì, in qualche posto a nord-nord est; ma non importa, basta l'idea, e l'idea che l'Interzona sia il centro di qualcosa in una notte di dicembre come questa ha, in sé, qualcosa di rassicurante.
"Dopo le palline sono arrivate le Riprova sarai più fortunato. Le più ambite erano quelle di Fort Apache e se superavi la prova potevi lanciarti dalle Brooklyn, la gomma del ponte. Al tempo però le chewingum avevano un mucchio di sapori in più ed il meglio, il più rivoluzionario, era il Cinnamon. Il Cinnamon era il vero gusto da Black Panthers, da Malcolm X. Il Cinnamon è la cannella, ma non vale"
Mentre aspetto mi raccontano la storia di un uomo che qua dentro ha lavorato per cinquant'anni e passa, arrivando ogni mattina e andando via ogni sera, e mi fanno notare che se adesso non fossimo qui a raccontare e sentire la sua storia, una storia di ordinaria normalità - senza follia né alienazione - la memoria di questo semplice operaio sarebbe perduta come le vite di uomini non famosi, qualcuno avrebbe scritto "non illustri", che hanno visto, con qualche decennio di anticipo, gli stessi cieli e gli stessi soffitti.
Nel frattempo, Max Collini è poco lontano da noi, intento a sistemare il banchetto dei cd, dei vinili e delle magliette, vestito di nero e con gli occhiali, un filo di pancetta che lo rende quasi il sosia di un mio collega un tempo molto comunista, poi molto fascista e comunque molto in grado di trovarsi sempre, e comunque, dalla parte di un torto che nessuno fa fatica a riconoscergli, a partire da un ex fidanzata che caricava di botte e tradiva - si dice - in trasferte oltre Cortina, cogliendo il frutto della miseria bolscevica che avversava, come in un vecchio film, con surrogati non troppo diversi da collant e penne biro.
"Che razza di tipacci fossero gli altri ragazzi che aveva frequentato non ci è dato sapere. Di sicuro Francesca con gli uomini non è stata fortunata, e la parola "sensibile" resta dubbia e ambivalente..."
Ha un faccia così familiare, un modo di fare così rassicurante, Max, che quasi quasi mi vado a presentare, vado a fargli i complimenti per quello che ha scritto, per lo stile, per gli arrangiamenti del suo gruppo, e per tutte quelle cose che vorresti dire a un'artista che stimi, o a uno che in qualche modo ti ha colpito per come scrive e per come riesce a tirare fuori quello che ti piacerebbe pensare, ma non riesci mai ad esprimere e non riesci mai a dire, per uno che insomma realizza i tuoi sogni e immagina al posto tuo. E invece, come sempre, non ho il coraggio di farlo, non ho il coraggio di mostrare la mia faccia, non ho il coraggio di entrare in contatto, di far vedere l'imbarazzo e l'emozione, forse anche una specie riconoscenza e certo l'ammirazione, e allora resto in disparte seduto al tavolo, proseguendo i discorsi di prima sull'Interzona al centro del mondo e sugli operai dei vecchi mercati.
La sala si riempie, si spengono le luci, inizia il concerto. Non hanno la chitarra e il basso, quindi niente "Kappler", niente "Cinnamon", o "Sensibile", niente colpi al cuore a tradimento, niente ritorni agli anni '80 per come meglio me li ricordo pure io che sono di qualche anno più giovane di lui.
Sul palco oggetti vintage, confezioni di Tatranky da regalare al pubblico, un pinguino, l'elenco telefonico di Reggio-Emilia per "Onomastica", Max al centro e gli altri due Offlaga ai loro sintetizzatori. Trame sonore che si sovrappongono e si dileguano nel silenzio di una sala piena come non mi era ancora capitato di vedere, ricca di gente che può essere coetanea di Max, e qualche "alternativa del l(u)ogo": con borsa, mi fanno notare, di marca particolarmente pregiata e poco acconcia ad un antagonismo che, forse, questo posto ha pure smesso di cercare, lasciando che si traduca direttamente in musica e al diavolo tutto il resto.
"Io non avevo mai rubato niente. Poi, una volta, ho rubato una macchina davanti a tre poliziotti della stradale non molto interessati alle presidenziali brasiliane. Che fosse mia non aveva, quella sera, grande importanza"
Accanto a me c'è un tizio sulla quarantina che canta tutte le canzoni a memoria, e mi stupisco, con una punta d'invidia, per la perseveranza maniacale di chi sa i testi a memoria, le battute dei film, ricorda tutte le date di compleanno e tutti gli anni della sua vita, mentre io non ricordo quasi niente, e se ricordo mescolo le cose, confondo le persone, sovrappongo i fatti cercando di dar loro una forma appena decente, mi vedo alla guida di macchine che non sono mie ed in anni in cui non avevo neppure la patente, mi vedo al posto di blocco con il poliziotto che ci ferma e legge i cognomi dai documenti sbagliando la dizione di tutti quanti, ma non è colpa sua, non è del luogo (a dire il vero i cognomi sono dei suoi luoghi, però). Mi stupisco della perseveranza di certe persone, come mi stupisco della passione di chi non si stanca mai, non passa ad altro, non lascia perdere e non dimentica.
Mi chiedo perché ci sia così tanta gente, a parte le persone che sono state invitate, sono state portate o hanno accompagnato, a parte le persone che sono qui per caso e per abitudine, passando il concerto più nei bagni che in sala, e mi chiedo, soprattutto, perché qualcuno applaude quando Max parla del comunismo, parla del suo - e un poco mio, forse e di qualcun altro - "piccolo mondo antico-Fogazzaro" che i più giovani qua dentro non sanno nemmeno concepire, avendo un'idea approssimativa di Space Invaders, della Cinnamon Brooklin alla cannella, con la confezione rossa che se non stavi attento scambiavi per fragola, fregandoti le cento lire e tutto il pomeriggio a masticare un gusto troppo forte.
"Come souvenir ho preso trenta confezioni di wafer Tatranky, pacchetti tipo Loacker ma molto più buoni. Solo dopo qualche giorno ho notato un marchio un po' nascosto: Danone (...Kraft). Ci hanno presto tutto. Ci hanno davvero preso tutto"
Mi chiedo perché si divertano, mentre quando Max Collini canta e gli Offlaga suonano, a me, e non solo a me, viene un poco di magone e quel groppo alla gola che ho imparato a reprimere con l'abitudine; non perché racconti di cose che ho vissuto in parte anch'io, non perché canti di certe idee venute meno e delle cassiere del cinema di Cavriago non molto diverse dalle ragazze che all'ingresso dell'Interzona ti fanno il timbro con l'inchiostro simpatico, non perché canti di un club di Praga dove nel 1995 mi sono capitate cose del tutto identiche alle sue, salvo il fatto che là invece che Romina & Al Bano amavano qualche altro residuato della nostra premodernità canora, con l'effetto assurdo per cui una ragazza trovava decisamente "cool-ok-belisimo" ciò che i nostri zii più moderni avevano archiviato con l'arrivo di Lucio Battisti, non perché questo gruppo dovrebbe esistere da più tempo e dovrebbe essere conosciuto da tutti, e non da una minoranza (con cui sono pure in disaccordo per la discutibile scelta di qualche borsetta).
E' quel "ci hanno davvero preso tutto" che mi scuote ogni volta, perché Max Collini, con il suo maglione nero, la sua educazione, l'umiltà con cui alla fine del concerto si mette al tavolino a darti il resto per la maglietta o per l'ep che compri, riconoscendo il dialetto di una dei suoi paesi, con il suo essere allo stesso modo cantante, scrittore (forse poeta, e certo più di suoi più noti conterranei) e agente immobiliare, sta narrando da anni un'unica vicenda, una vicenda che solo questa sera sto realizzando a pieno.
Ogni volta che li sento, questa sera che per la prima volta li vedo, gli Offlaga mettono in musica una specie di requiem, la fine di un mondo che forse non c'è mai stato - se non nell'esperienza e nell'immaginazione dei singoli, nella capacità di tradurre i gesti in parole, e le parole in emozioni che si trasmettono agli altri - un mondo che non sopravvive nemmeno grazie alle cooperative di Cavriago o a Yucca Reverberi, un mondo che si è solo immaginato, e che a volte si continua a immaginare come possibile ed assieme fuggevole, come una serata in musica, la sosta nei bagni dell'Interzona, l'inchiostro simpatico sulla mia mano e la memoria di chi ha lavorato, cinquant'anni prima, in queste stesse stanze, l'errore, perdonabile, di chi mette Helsinki nel posto sbagliato della cartina.
"Kappler mamma, mi ha dato otto"
E', infine, tutto ciò che resta.
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