Come già l'unica altra recensione su Okkyung Lee presente nell'archivio di DeBaser afferma, il fatto che questa simpatica ragazza coreana sia stata scoperta da quel pazzo di John Zorn e che viva sotto la sua ala protettrice ci può (non) far capire cosa contenga questo disco. 

Una violoncellista atipica che non ha nulla di che spartire con altri nomi della musica contemporanea. La sua ricerca sonora è dettata dall'improvvisazione più selvaggia, cacofonica e disturbante si possa trovare in giro. Praticamente Masonna imprigionato tra le pieghe della classica. La Lee pugnala il violoncello con l'archetto, lo distrugge, lo soffoca, lo sconquassa con una nonchalance da lasciare inebetiti. E nonostante la sua musica sia così libera da convenzioni, una belva animalesca pronta a dilaniare il collo dell'ascoltatore, l'insieme di suoni è in grado di trascinare altrove, di abbandonare il corpo di chi accetta la sfida tra le galassie, aspettando l'apocalisse. 

Scioccante era già l'ascolto delle sue precedenti prove, ma con "Ghil" ogni ostacolo viene abbattuto. Registrato con apparecchiature datate e con una ricerca masochistica del brutto, dell'imperfezione e del cadavere lasciato a marcire, "Ghil" è il risultato di uno sfogo dell'artista, che si è lasciata andare in improvvisazioni derivate dalla solitudine. Se già "Noisy Love Songs" vi sembrava estremo, preparatevi: con "Ghil", la Lee ha voluto raggiungere un obiettivo non poco ambizioso: "non solo far ascoltare lo strumento, ma anche farlo sentire." Sentire non solo l'agonia di questa musica dall'oltretomba, ma anche il corpo, la carne, la vita del violoncello stesso. 

Ma come suona "Ghil"? Mi è difficile dirlo. Perché è l'ultimo disco che ti aspetteresti possa uscire da un arco. Un insieme violento di rumore e caos, di noise puro e schizofrenico, di momenti che lasciano persino trapelare nature drone e doom-metal. Carne, sangue, morte: è il suono di un leone che rincorre la gazzella prima di troncare la sua vita. Un'incisione senza anestesia che si diapana in composizioni brevi (il bell'intermezzo drone "Holow Water") e lunghe, alcune di queste venute direttamente dall'inferno (il capolavoro "Meolly Ganeun", la straordinaria "Over The Oak, Under The Em", gli impalpabili nove minuti di "The Space Beneath My Grey Heart").
Ha il suono del sangue, della terra, di un cielo denso e scurissimo, pesante come un macigno. Ha il suono di un respirare affannoso che termina in un urlo straziante. 

Impressionante, feroce, indescrivibile, "Ghim" fa tremare.
Mi è difficile parlarne, ma desideravo farvelo conoscere. Vorrei scriverne meglio, in modo più approfondito, ma le mie dita non sanno più battere su questi tasti ormai privi di significato.

Detta banalmente: è tra le migliori cose di questo 2013.

Torno all'inferno.  

Carico i commenti... con calma