La caratura artistica di Oliver Nelson, seppur riconosciuta - soprattutto dagli addetti ai lavori - più per le qualità di compositore/arrangiatore che per quelle di (poli)strumentista (aspetto purtroppo trascurato), non ha avuto la collocazione che avrebbe meritato. Nativo di Saint Louis, Nelson nella sua sostanzialmente breve carriera (è morto nel 1975 all'età di quarantatré anni) è comunque riuscito a catalizzare molte energie stilisticamente eterogenee facendole confluire in una produzione - sua e di altri - piuttosto corposa e non solo in ambito esclusivamente della discografia musicale: ad esempio lavorò anche per il cinema, e sue sono le orchestrazioni della colonna sonora di "Ultimo Tango a Parigi" di Bernardo Bertolucci eseguita da Gato Barbieri. Il feeling blues da una parte, e gli studi "alti" dall'altra, sono stati il vero punto di forza che hanno permesso al Nostro di caratterizzare la sua scrittura originale.

"Nocturne", album "confidenziale" della serie Moodsville della Prestige, registrato nell'agosto del 1960 negli studi di Rudy Van Gelder (che proprio in questi giorni ha compiuto novant'anni, quindi auguri), è una buona sintesi del valore di Nelson: una sorta di ideale preludio che aprirà la strada a "The Blues and the Abstract Truth", il suo disco più riuscito (registrato qualche mese dopo), che vede la partecipazioni di personaggi come Bill Evans, Eric Dolphy, Freddie Hubbard e segnato soprattutto da "Stolen Moments", uno dei pochi standard che ha avuto la forza di reggersi da solo e fuori dall'epoca d'oro di Broadway. Ma "Nocturne", nonostante compagni di cordata meno blasonati ed influenti di quelli citati poc'anzi (a parte Roy Haynes alla batteria), ha comunque modo di mostrare egregiamente i connotati stilistici di Nelson, a partire proprio dal brano omonimo, sicuramente il manifesto delle visioni nelsoniane del disco: un bolero introduttivo (che diventa il leitmotiv armonico nel finale e scandito dal pianoforte di Richard Wyands) in cui ha modo di inserirsi lo splendido e sussurrato lirismo del sassofono di Nelson (che per i più suggestionabili potrebbe rievocare certi passaggi proprio del Barbieri da Ultimo Tango, nonostante i contesti differenti), sottolineato dal contrabbasso con archetto di George Duvivier. Un brano che lancia il secondo, "Bob's Blues", che come suggerito dal titolo ha un taglio più "tradizionale" e che vede come ospite Lem Winchester al vibrafono, che le cronache storiche ci consegnano come una delle figure più curiose di tutta la storia del jazz, essendo un ex poliziotto che, smessa la divisa per dedicarsi esclusivamente al jazz, è morto proprio pochi mesi dopo questo disco con un colpo di pistola dopo, pare, un giro alla roulette russa (!). Il disco continuerà senza stravolgimenti di sorta, mostrando con pacatezza ed incisività (gusto ballad, accenni hard bop, scrittura accattivante nei temi originali) le qualità di Oliver Nelson, un gigante che sapeva molto bene il fatto suo e che andrebbe (ri)coccolato meglio, sotto vari aspetti, nella storia del jazz. .

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