Oggigiorno le vecchie con i denti strani non ti chiedono più di tinteggiargli la staccionata. Purtroppo le storie di William Faulkner non le legge più nessuno. Oggigiorno ti chiedono ti tinteggiargli un bel muro del cazzo e lo scenario va a farsi benedire. Prima tinteggiavi guardando un prato o, che ne so, un bel ruscello o una contadinella piegata a novanta intenta a raccogliere qualche tipo di ortaggio... Oggi un insieme di stucco, cemento e mattoni. Poi magari ti capita, per caso, da sempre, di soffrire di vertigini e così, sempre per caso, ti dicono che il loro cagnolino è vivace, mette la testa fuori dal balcone, e che ora, quindi, tocca a te mettere la testa fuori dal balcone. Per cucire una bella recinzione orribile che se solo attraverso quella si potesse osservare il mondo - come per il cagnolino della vecchia con i denti strani tra qualche giorno - bisognerebbe cercare il modo di raggirarla solo per gettarsi di sotto. Bene, con il cranio bello pesante a dondolare dal quarto piano mi giunse l’illuminazione... non solo solare, ma partiamo dalla fine.
 
Dicevamo: 5, pochi cazzi. 5 non nel senso di “disco bello, da ascoltare assolutamente”, ma 5 nel senso di “a me della perfezione frega meno di zero, ma questo disco, mortacci loro, è perfetto”. Avete presente quello che s’intende con il termine “psichedelia”, cioè quelle cose, non per forza inodore e insapore, che tu infili nello stereo o che fai girare, poi chiudi gli occhi e cominci ad ascoltare dal salotto di casa - o dal balcone della signora con i denti strani - e finisci, in estasi, perso chissà dove, ma sicuramente in un posto lontano e migliore? Bene, questa è la psichedelia e Rated O - secondo capitolo della trilogia “Thank Your Parents” cominciata l'anno scorso con Preteen Weaponry -, triplice disco dalla portata di due ore, uscito il 13 luglio dai magazzini di quegli illuminati/fulminati della Jagjaguwar, è il suo sussidiario. Tutto quello che si può fare con la pscichedelia lo trovate qui dentro.
 
Tre dischi: il primo mischia elettronica cafona con l’acido inacidito dal tempo, tant’è che a tratti vi sembrerà di sentire uno di quei pezzi da sala-da-ballo-demente-in-spiaggia, ma fatto bene, con tutta la cattiveria e l’arroganza del caso, come a dire: trasformiamo la merda in oro e lo facciamo ora. Poi se ci sentite qualche tribalismo kraut estremizzato all’inverosimile non impressionatevi: non avete cominciato un brutto trip. Sono gli Oneida che lo cominciano per voi.
 
Il secondo, invece, se possedete una Mustang decappottabile, magari rossa come quella del cattivo di Cape Fear, è perfetto. Stoner abbastanza stonato, ma non fino al punto di rallentare all’inverosimile. Le chitarre, sappiatelo, si buttano sui pattern aggrappandosi che è una bellezza... E il synth? Il synth vi friggerà quel poco che vi è rimasto da friggere. Se poi vi viene da saltare con “The Life You Preferred” perché il riff in maggiore, che si sdoppia controtempo, vi rianima è sempre tutto okei. Se poi volete ballare, perché il caldo non vi seda e tutto il resto appresso, rimane “It Was a Wall”.
 
Il terzo è un jam freak che tira fuori dallo sgabuzzino un sitar che non solo è fuori tempo massimo ma pure bellissimo, insieme a tanta effettistica che sembra provenire dallo spazio o dalla sala prove degli Hawkwind. Se proprio siete stanchi il terzo è preferibile. Voi vi stendete e lui si muove.
 
E poi uno si lamenta che non succede, che non esce mai nulla, che il rock è morto, che il cinema pure è morto e che dopo altri cinque minuti è finita pure l'era dell'amore, crollata sotto il peso del do it yourself... E tutte le altre frasi di circostanza. Ma se vi trovate di fronte alla solita domanda - "What’s Up, Jackas?" - voi non rispondete. Fate rispondere agli Oneida. O alla vecchia con i denti strani.

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