Ciao ragazzi!

Bentrovati dopo una settimana dal mio nuovo esordio e dal possibile inizio di una nuova carriera di recensore sul nostro sito. Quest’oggi vorrei dedicare, con e per voi, la mia attenzione ad una cantante che, negli anni, è diventata quasi un simbolo della musica padana e di una certa pacificante via la melodismo casalingo italiano, come Orietta Berti da Cavriago (RE).

Il nome Cavriago potrebbe dirvi qualcosa se siete della zona o se, come me, conoscete la “Piccola Pietroburgo” per sentito dire, grazie al noto pezzo omonimo degli Offlaga Disco Pax, che descrissero la vita del piccolo paese “dove è nata Orietta Berti” sottolineandone gli intimi legami con la tradizione solidaristica del socialismo reale declinato a tigelle e gnocco fritto. Ed è quindi forte la tentazione di recensire Orietta quasi come in uno spin-off dei pezzi di Max Collini, descrivendo attraverso la carriera della nostra anche la piccola Italia di provincia che, muovendo dalle balere, si ritrova davanti al focolare domestico trepidando per la bella e rassicurante – nelle forme, nello stile, nell’educazione, nel belcanto – Orietta. Cercherò di non fare così, giusto per non essere scontato.

Al contempo, molti di voi ricorderanno Orietta sempre per vie traverse, a causa del fatto che nel Sanremo del ’67 la nostra fu, indirettamente, coinvolta nel tragico suicidio di Luigi Tenco: non che la povera Orietta fosse coinvolta nel caso, ma l’occasione della morte del cantautore genovese fu l’ammissione alla finale del Festival di “Io tu e le rose” di Orietta, a fronte della bocciatura dello stesso Tenco. Bocciatura che, secondo l’aneddotica ed un biglietto vergato da un Tenco forse confuso, sarebbe stata la causa scatenante del fattaccio che tutti conosciamo o possiamo agevolmente conoscere consultando qualche altro sito. Credo che anche questa prospettiva non aiuti a lumeggiare il vero ruolo della Berti nella musica italiana, finendo per creare una ingiusta contrapposizione fra la canzone d’autore perdente sul piano commerciale ed esistenziale alla più allegra e vitale canzone di consumo.

Credo, invece, che lo studio del canzoniere di Orietta Berti possa essere svolto valorizzando la sua carriera artistica in quanto tale, senza troppo indulgere nella ricerca di contesti in cui situarla, cogliendo alcune sfumature dei suoi brani migliori. Se alcuni di voi, specie i più giovani, credono di leggere una gratuita rivalutazione di un supposto trash italiano, cambino pure pagina, giacché la mia resta una riflessione ancorata al valore storico dell’esperienza bertiana, nel filtro offerto – e non potrebbe essere diversamente – dalle sue stesse canzoni.

La Berti non è stata cantante da album, ma da singoli. Singoli che hanno sempre tenuto un piede saldo nella tradizione popolare, senza essere incasellabili in generi di nuovo conio, come lo yeye anni ’60, la canzone popolare o d’autore anni ’70, l’elettropop anni ’80 ed il revivalismo anni ’90, cui pure Orietta ha dato alcuni contributi con numerose comparsate televisive.

In questo, direi che Orietta rappresenta una specie di unicum nella storia della nostra musica, non essendo il suo stile comparabile allo stile rockeggiante di Caterina Caselli, al maximum rhytm’n’blues della migliore Iva Zanicchi, alla passionalità brechtiana di una Milva, al jazz-lounge della mala di una Vanoni, per non dire all’eclettismo istrionico e gigione di Mina: lo stile di Orietta è non solo personale, ma rispecchia più che in ogni altra cantante dell’epoca la personalità della donna reale, e non solo dell’artista come mera immagine o simulacro commerciale prodotto dalla case discografiche.

La bellezza e grandezza dell’Orietta mi sembra da individuare, quindi, nella sua veracità. Veracità che mai collassa nel bozzetto o nella caricatura della bella e buona donna emiliana, che si nutre dello stesso realismo delle nebbie e della calura della sua terra, dei grandi spazi della piana in cui cielo e terra si confondono.

E fra cielo e terra, sentimento e realtà, sogno e concretezza, si può situare ed incontrare la stessa Orietta. Scoprendo, magari, una realtà diversa da quella che appare, oltre le nebbie del pregiudizio o della valutazione frettolosa.

Per chiarire, basta ascoltare alcune canzoni della nostra.

Di questa bella antologia vorrei segnalare alcuni pezzi, a partire dalla celeberrima “Fin che la barca va”, pezzo che, negli anni sessanta, pezzo divenuto un archetipo dell’ottimismo italiano del boom, al punto di essere indirettamente citato dal grande Federico Fellini in “E la nave va” (’83), a simboleggiare non senza un certo cinismo l’inerzia con cui la nostra Italia entrava negli anni ottanta fra le prime potenze al mondo.

Il fatto che sia solo un pezzo ottimistico, tuttavia, pare privo di fondamento non appena ci si concentra sul contenuto delle strofe, e non del solo ritornello: canta, Orietta, di una sorella “che aveva un fidanzato di Cantù/voleva averne uno anche in Cina/e il fidanzato adesso non l’ha più”, così simboleggiando – con allegra ironia – i rischi dell’abbondanza e della voglia di crescere oltre il proprio limite ed oltre la propria misura. Un monito sinistro, sia per l’Italia che negli anni settanta si preparava a conoscere anni di crisi, che per tutta la storia recente del nostro sfortunato Paese.

Pare di sentire, nella metrica, il più tardo Capossela di “Decervellamento”, quando l’aedo dell’Emilia contemporanea ci narra di un uomo – un piccolo borghese che potrebbe essere il compagno stesso della donna di cui Orietta ci narrava anni prima – che spintosi oltre il proprio limite ed il senso stesso del limite, finisce per cadere “diritto a testa in giù/nel vortice da cui non torni più”.

Che il repertorio di Orietta sia ottimistico solo sul piano ritmico e melodico, ma malinconico su quello del contenuto – creando una sorta di dissonanza fra forma e sostanza – è chiaro anche studiando “Tipitipitipitì”, dove il ritornello arricchito da onomatopee pascoliane fa da contraltare alla tristezza dell’illusione e dell’abbandono, che una donna degli anni sessanta viveva quasi come un tradimento, se non come un ripudio: quasi freudiana la semantica della strofa in cui appare “l’uomo con l’organino/che ci dava un biglietto blu/c’era scrivo “ti vuole bene”/ma non era la verità”. Quale sia la verità non ci è dato sapere, ed il destino della donna resta dubbio e ambivalente come, in realtà, è la vita di ognuno.

Non posso trascurare, in chiusura, la stessa “Io tu e le rose”: il pezzo, riascoltato oggi, conferma come il giudizio di Tenco fosse ingeneroso e figlio del dramma che il cantautore attraversava per altre ragioni, a noi estranee. Quello che in apparenza è un normale pezzo d’amore può essere ricontestualizzato a partire dall’esame delle strofe, dove si capisce come la coppia che Orietta forma con il proprio uomo sia in qualche modo avversata da fattori esterni: mia sensazione, ma probabilmente la coppia viene avversata come clandestina o per la scandola scelta di convivere in un’epoca in cui – rammento a tutti – la ragazza usciva dalla propria casa avita illibata, per divenire donna solo una volta dismesso l’abito bianco ed aver messo piede nella casa del marito. Ed ecco che si schiude il senso di frasi come “per me c'è troppa gente/gente che vuol sapere perché/viviamo così”, come pure “e se l'odio della gente/ ci terrà lontani/resteremo noi/io, tu e l'amore”. Brani e passaggi che, oggi, trovano non poche somiglianze con il miglior Dente, quando – in “Vieni a vivere con me” – ci canta che “a nido d'ape o a lisca di pesce/ Facciamo una cassetta tutta come ci va/Mettiamo un letto sul pavimento/Che al mal di schiena ci pensiamo nell’aldilà”.

Credo, in sintesi, che i migliori pezzi di Orietta non siano solo modernariato, ma anche un utile strumento per conoscere le radici della nostra musica popolare, ed i modelli di riferimento della musica moderna. Che il tutto avvenga con la grazia di una bella e semplice donna dai capelli rossi, tante simile alle nostre zie o alle vostre nonne, non stupisca: è l’energia delle donne di provincia che, da sempre e quasi come uno specchio, moltiplica gli uomini e ci traghetta dal passato al futuro.

Specchiatamente Vostro

Carico i commenti... con calma