Questo disco di Ornette Coleman, insieme al precedente “The Shape Of Jazz To Come” (col quale ha in comune una delle sessioni di registrazione), è il più rappresentativo dello straordinario sassofonista, ed entrambi sono un punto di partenza ideale per accostarsi al suo mondo musicale. Già dal titolo (letteralmente: “questa è la nostra musica”) sembra caratterizzarsi quasi come una raccolta di pezzi volta proprio ad illustrare al mondo tutti gli aspetti tipici del sound e del manifesto poetico di questo quartetto.

L'avvento di Coleman sulla scena newyorkese, nel '59, aveva causato un vero e proprio putiferio, e aveva spaccato in due critica, musicisti e pubblico. Alcuni parlavano di lui come del più grande innovatore dopo Charlie Parker, altri erano convinti che si trattasse di un bluff totale, e che non sapesse neanche lui cosa stesse facendo. Chi gridava al miracolo, e chi invece l'avrebbe rispedito a calci nelle terga a Fort Worth nel Texas! Ovviamente non mancarono sostenitori e oppositori illustri nei confronti del suo modo di suonare, battezzato free jazz”; John Lewis, pianista e leader del Modern Jazz Quartet (la cui musica era agli antipodi con quella di Coleman), si prodigò per supportare in tutti i modi le idee innovative e il concept di Coleman e del suo gruppo, ed anche un personaggio di spicco come Leonard Bernstein (grande direttore d'orchestra e compositore, nonché amante del jazz), una sera al Five Spot saltò sul palco e disse: “Questa è la cosa più grande che sia mai successa al jazz!”. Venendo agli oppositori, un'altra sera un disgustato Dizzy Gillespie si piazzò davanti al quartetto con le braccia conserte e disse: “Ma state facendo sul serio??”. Miles Davis inoltre dichiarò più volte che non trovava così rivoluzionario quello che faceva il quartetto, e che “Non facevano altro che rimbalzare uno sulla musica dell'altro, senza vincoli formali.”. Don DeMichael parlò di “tecnica strumentale abominevole”, mentre Charles Mingus si tenne su posizioni più neutrali, parlando di “disorganizzazione organizzata” e di “modo di suonare sbagliato che sembra giusto”. Anche la strumentazione particolare dei due fiati, un sax contralto di plastica bianca, e una specie di trombetta “giocattolo”, erano oggetto di critica e derisione.

Niente male come polverone! Ma Ornette non era un provocatore, non voleva suscitare questo vespaio ma solo esprimersi in libertà; replicò, semplicemente: Io dico che non c'è alcuna maniera “giusta” di suonare jazz.

Nelle note di copertina di questo album, con l'intento di chiarire ancora meglio la sua visione, Ornette scrisse: “L'improvvisazione di gruppo non è nuova. Nel jazz dei primordi quel modo di suonare in gruppo era noto come Dixieland. Nell'era dello swing, l'enfasi cambiò e l'improvvisazione prese forma di assoli basati su riff. Nel jazz moderno, l'improvvisazione è melodica e armonicamente progressiva. Ora noi stiamo miscelando queste tre cose insieme per fornire più libertà al musicista e maggior piacere all'ascoltatore.”. E' tutto così chiaro che si fatica a comprendere il perché di tanto fraintendimento, tenendo anche conto che la musica delle prime performance live e dei primi dischi era tutt'altro che estrema come sonorità! Ma erano altri tempi...

Fin dai primi ascolti questo disco del '60 si fa amare come una deliziosa scoperta; è una delle musiche più spontanee e belle che ci siano! Già dall'iniziale ed esplosiva “Blues Connotation” è in evidenza il bellissimo timbro e drive di Ornette e del giovane Charlie Haden al contrabbasso. Ed Blackwell alla batteria non fa rimpiangere Billy Higgins, presente nei dischi precedenti, e Don Cherry con quella sua strana tromba ha un suono sottile e inedito. Il secondo brano è leggenda, “Beauty Is A Rare Thing”, in cui su una base di basso e batteria (suonati splendidamente con archetto e malletti) di alto impatto emotivo, Ornette e Don disegnano melodie sublimi che diventano struggenti negli unisoni, dissonanti e meravigliosamente conflittuali. L'interplay è alle stelle. Altro meraviglioso momento è “Embraceable You”, unico standard suonato dal quartetto, famoso brano di Gershwin reso irriconoscibile in virtù della grande spontaneità e dolcezza con cui viene parafrasato il tema, rallentato e solo derivato dall'originale.

Nella musica di questo quartetto, l'assenza del pianoforte è funzionale a rendere tutti più liberi armonicamente e a creare uno spazio vuoto in cui le singole voci di sax, tromba e contrabbasso possano risplendere con più risalto. Il suono che ne deriva è pulitissimo, netto, scolpito nel silenzio. Senza rendersene conto, e in un contesto completamente diverso, i quattro misero in pratica un concetto molto caro a Miles Davis.

E come se non bastasse, ciliegina sulla torta, anche la qualità di registrazione di questa incisione storica è ottima.

Carico i commenti... con calma