Certo, con una protagonista come Natalie Portman in questo stato di grazia, metà del film è fatto. Ma l’ottimo Pablo Larraín fa davvero molto per non essere messo in ombra da una prova attoriale spaventosa. O meglio, riesce a dare quanto più spazio possibile all’attrice, ma senza sacrificare il suo lavoro di indagine, di costante esplorazione dell’anima di Jackie. Questo è un film che può apparire scarno, ma solo perché il regista e lo sceneggiatore Noah Oppenheim sono bravissimi a non farsi notare; ma cionondimeno scavano, fanno ipotesi, accostano momenti diversi, aprono questioni intimamente personali, religiose, oppure istituzionali, politiche. Mostrano davvero tutto quello che si poteva mostrare, fanno dire proprio tutto a Jackie e agli altri personaggi. E tutto senza appesantire l’ordito filmico, che procede speditamente, mescolando la grazia della protagonista a uno stile severo, che pur tendendo all’enfasi non diventa mai gravoso. In questo senso il dosaggio delle musiche, i tagli di scena nel montaggio e tutta la componente emotiva dell’opera sono calibrati con maestria.

In 95 minuti, senza sforzo quasi, ci viene snocciolata tutta la complessità della figura di Jacqueline Kennedy, durante i giorni più traumatici della sua vita. Ma all’interno di questo tempo ristretto, c’è spazio per le tutte le diverse sfumature del suo carattere: l’ingenuità e la goffaggine dei primi tempi, mostrate attraverso le immagini di un documentario sugli arredi della Casa Bianca; l’ego che si gonfia col tempo, la vanità, quando vediamo la protagonista prepararsi sull’aereo e poi darsi in pasto alla folla; il dolore, il nero pesto, anche attraverso un uso del sangue intelligentissimo, un voyeurismo quasi che porta la macchina da presa a seguire Jackie alla fine di quella giornata tragica, quando deve togliersi le calze, quando deve andare a dormire. E poi ci viene mostrata l’ira, la necessità di una catarsi, sempre sdoppiata tra la volontà di celebrare il marito e quella di esporre al mondo il proprio dolore e quindi se stessa. C’è poi la polemica, il rimuginare su quanto fatto, il trovare giustificazioni alle proprie azioni impulsive, di fronte a un giornalista che la incalza. E infine c’è la pace, il ritrovare il proprio equilibrio, dialogando con un sacerdote e accettando l’insensatezza della vita.

Per ogni tessera di questo mosaico straordinario, Natalie Portman ha una diversa sfumatura nell’espressione. Il suo volto è fedele cartina tornasole delle diverse spinte interiori della donna. La qualità della sua recitazione è vertiginosa e si armonizza perfettamente con la struttura della visione registica. La capacità di ritrarre un simile personaggio, senza sbilanciarsi nel giudizio ma esplorandone tutte le dimensioni con eguale ed ammirevole profondità, va suddivisa tra le capacità tecniche e di immedesimazione dell’attrice e l’impostazione generale del regista e dello sceneggiatore. Un attore anche straordinario, senza un copione valido, diventa una macchietta che ripete continuamente uno schema. Invece sul volto di Natalie si disegnano i tanti momenti e i sentimenti, anche contrastati, di quei giorni funesti. E quindi può sembrarci una bambolina, col suo tailleur rosa Chanel, oppure una Madonna velata, tutta in nero e rigorosamente inquadrata dal basso, durante i funerali.

A livello di puro stile registico, Jackie è un film rigoroso, che non ha bisogno di concedersi grandi svolazzi, perché già solidissimo. Eppure le inquadrature non si dimenticano: Jackie di spalle mentre si prepara a Dallas, la macchina dopo l’omicidio ripresa dall’alto, la doccia per lavare via il sangue, con la protagonista di spalle, o ancora la già citata inquadratura dal basso durante le esequie. Appena dopo la morte, c’è un’inquadratura strettissima sugli occhi colmi di lacrime, mentre Jackie si pulisce via il sangue. Quella è poesia. E poi il sangue resta, seppur appena accennato, sul vestito, come a segnare la dipartita della donna da quel mondo, la sua morte istituzionale insieme al marito. Questa psicologia del venir fatta fuori è resa ottimamente e rappresenta uno degli aspetti sicuramente più interessanti nella declinazione istituzionale delle vicende. Kennedy svanisce immediatamente, non c’è davvero la volontà di celebrarlo; la politica deve andare avanti, le istituzioni non possono fermarsi, l’America non può mostrarsi debole. E allora in questo senso la testardaggine di Jackie, il suo bisogno di prendersi la scena ancora un’ultima volta, sono serviti allo Stato per fermarsi un poco e riflettere sulle proprie tragedie. Nella sua visione puramente familiare e personale degli eventi, la protagonista incide anche a livello politico.

La qualità della scrittura è tale da aprire una riflessione anche sul giornalismo, sull’emergere o meno della verità attraverso l’intermediario della stampa. L’autocensura di Jackie forse le impedisce di farsi comprendere appieno dall’opinione pubblica, ma l’occhio cinematografico esiste proprio per restituirle quanto essa stessa ha deciso di togliersi, censurando parti dell’intervista. Il cinema arriva a colmare le ingiustizie della politica e del giornalismo, arriva come bilancio definitivo di una vita.

E nei tanti spunti, c’è spazio anche per una visione esistenziale, un’analisi della vita umana all’interno della costruzione del cosmo da parte di Dio. E alla fine ciò che resta è ben poco, l’uomo non ha bisogno di granché per vivere, come a suggerire che ben presto anche la tragedia di Jackie verrà superata.

8+/10

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