Eccoci a parlare ancora di Paolo Conte.

E' autunno, e nel mio Piemonte, come nel suo, è arrivata la nebbia insieme al freddo mattutino, le castagne in vetrina dal fruttivendolo. E tra poco c'è il novello, da snobbare schifati come tutti gli anni, ripudiandolo come roba donnesca. Per non farci mancare niente, in questo periodico angolo di paradiso che appunto è l'autunno, con la prima polenta tra amici già ci abbiam dato.

Mancavano però quelle note di piano che da sempre abitano le nebbie degli anni migliori. Ed eccole.

Parte subito, ed è il suo piano. Il suo tocco. E si vive di sensazioni, e quella delle prime note è quella d'esser davanti non dico a un capolavoro (un capolavoro cantautorale, oggi e purtroppo, lo vedo tanto tanto difficile...) ma a qualcosa di più di una semplice buona impressione. Conte, dato artisticamente per morto dopo la lunga pausa post - "Una Faccia In Prestito", ha, come un bravo e caparbio minatore, pigro magari ma senz'altro geniale, trovato un secondo filone d'oro. Un oro un po' da meno, un po' vecchiotto, ma simpatico e furbissimo.

E' capace di guizzi e voli, il vecchio avvocato, di paraculismi e occhieggianti autocitazioni. Di scrivere senza genio, o con genio relativo e altalenante, cose comunque bellissime. Piacevoli, sempre alte, anche quando si permette di sottolineare, in una scena quasi d'amore, che “nel buio echeggia una scoreggia”. E questo disco è così. Una summa contiana. C'è il Conte voce e piano, intimista e amoroso (oh, intendiamoci, sempre alla piemontese, ne'?, dunque niente urla e niente melodramma, mai...), c'è soprattutto il Conte meritatamente considerato internazionale (qui si canta in italiano, inglese, francese, partenopeo...). C'è il Conte acusticissimo e quello vagamente e delicatamente elettronico (che erroneamente si ritiene nato con "Elisir"...), c'è lo scherzo e c'è la serietà, e soprattutto quella geniale e nebbiosa terra di confine dove serietà e scherzo si mischiano, confondendosi probabilmente anche agli occhi divertiti dello stesso autore.

E ci sono quei simpatici segni di bella vecchiaia che sono le autocitazioni, volontarie quanto probabilmente involontarie, sparse qua e là. E non conta che alcuni pezzi li abbia già scritti almeno due o tre volte.

È un ciclo, di fondo, tutto uguale e tutto diverso. Anche il Maestro Federico diceva di girare sempre lo stesso film. Tutto scorre bene, sereno, armonico, semiserio, tutto suonato benissimo dai professorini che finalmente cominciano a “mollarsi” (ah, l'età, che bella cosa), tra la penna capacissima dell'Avvocato, le sue dita ancora veloci e divertite e la sua voce che sa di antico, di Piemonte, di Francia, di vino e sigarette, e di tanto swing.

Insomma: c'è Paolo Conte. E Paolo Conte c'è.

Ed in questi anni disperatissimi di crollo culturale di un paese che ha saputo esser grandissimo, e che ora è così piccino picciò, non è poco.

Sì...: è proprio bello essere settantaquattrenni così.

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