Il classico passo più lungo della gamba. Il successo di Perfetti sconosciuti deve aver dato un po’ alla testa a Paolo Genovese, che sicuramente aveva fatto un buon lavoro in quel frangente, ma non può ancora definirsi un grande regista, né tanto meno un grande sceneggiatore.

The Place si ispira alla serie tv The Booth at the End, che non ho visto, ed è sicuramente interessante nelle sue istante preliminari. Un uomo, seduto al tavolino di un bar, ascolta i desideri delle persone e propone loro delle azioni da compiere, in cambio della realizzazione di tali aspirazioni.

Una struttura a cassetti e incroci che sicuramente può affascinare, inizialmente: come nel precedente film, il coro di personaggi che appare in scena presenta un’umanità frastagliata, delusa, inacidita, meschina. Ma a differenza di quello, il nuovo lavoro eccede nelle quantità e quindi inevitabilmente (o meglio, per incapacità o scarsa cura) cala nella qualità dei profili tratteggiati.

Perché in fin dei conti le prospettive dei due film sono inverse: in Perfetti sconosciuti si indagava sul non detto, sui segreti e i sotterfugi delle persone ritenute “normali”; qui le stesse persone normali vanno al bar e tirano fuori tutta la loro interiorità, dando allo spettatore tutto e subito, eliminando perciò gran parte del fascino insito nelle loro vite qualunque. È ben più interessante scoprire via sms e Whatsapp le piccole e grandi ipocrisie della gente rispetto a farsele raccontare direttamente da loro, senza diaframmi.

A questo calo contribuisce la scrittura in sé dei dialoghi: sentimenti, riflessioni e racconti si dipanano in maniera lineare, quasi grossolana, e alla fine più che personaggi quelli che si siedono al tavolo sembrano burattini, funzioni diegetiche e poco più. La suora che cerca dio, il meccanico che vuole passare una notte con la modella, il padre alcolista e il figlio che lo ripudia, la donna insoddisfatta che vuole ingelosire il marito, la signora anziana col marito malato, il cieco che vuole vedere. Ecco, con il cieco che vuole riacquistare la vista si arriva al punto di rottura, è emblematico della poca sensatezza di tutta questa grandiosa struttura narrativa.

Qualche riflessione sensata sul genere umano alla fine fa capolino, ma è davvero poca cosa rispetto allo sforzo di erigere una simile impalcatura. Si viene quasi più assorbiti dall’intreccio dei diversi percorsi che dalla loro reale cogenza in termini di significati universali. Ma anche gli incroci e i risvolti più intensi (pochi, a dire il vero) si diluiscono nelle narrazioni davvero semplicistiche dei personaggi. E la regia si accontenta di stare a guardare, mentre avrebbe dovuto insistere di più sui primissimi piani, sui gesti minimi, sulla prossemica e sulle posture.

Gli attori non sono di certo una nota dolente, ma non mi hanno lasciato molto, così ingabbiati in figure strette e bidimensionali. Mastrandrea tiene botta ma nemmeno il suo personaggio mi ha convinto: la corazza di cinismo iniziale è palesemente accentuata e non veritiera, e quando cede, anche solo un poco, all’umanità, risulta deludente e buonista.

Ecco, il buonismo: il film che voleva rivelare il mostro presente in ognuno di noi, perde quasi tutta la sua vena corrosiva nella fase finale, che segna un’apertura quasi conciliante, da lieto fine nazional popolare.

5+/10

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