Il secondo lungometraggio del regista napoletano Paolo Sorrentino, dopo "L'uomo in più" del 2001, è un glaciale ritratto di un uomo senza vita intrappolato di un mondo gelido, in cui ad un certo punto si accende un fiammifero.

Toni Servillo interpreta magistralmente Titta di Girolamo ("Io non sono un uomo frivolo, l'unica cosa frivola che possiedo è il mio nome"), misteriosa figura che da otto anni vive confinato in un albergo di una grigia Lugano. Maschera seria, impassibile, incapace di un sorriso e priva di emozioni, Di Girolamo conduce un'esistenza monotona scandita dalle sue sigarette, dalla dose di eroina che regolarmente da anni si inietta ogni mercoledì alle 10 in punto, dalle partite a carte serali assieme ad una coppia di anziani sposi decaduti in miseria a causa del gioco d'azzardo e dalle silenziose sedute nella hall dell'albergo in cui lavora anche Sofia (Olivia Magnani), la bella cameriera che da tempo cerca di attirare la sua attenzione. Ha anche una moglie da cui è separato da anni e la sua famiglia fatica a rivolgergli la parola, colpa (e forse anche causa) dell'impenetrabilità che lo caratterizza.

Il mondo di Titta Di Girolamo è vuoto, senza luce, senza parole, e il primo pregio di Sorrentino è quello di mostrare questo mondo non attraverso gli occhi di chi cerca di entrarvi, incuriosito (come lo spettatore) dal mistero che circonda questa figura opaca ma lascia allo stesso protagonista il compito di descriverlo attravero i propri pensieri, le considerazioni e i monologhi che rimbalzano fra le pareti lisce della sua mente. La prima metà del film scorre così, facendo un disegno di Titta Di Girolamo e aggiungendo a poco a poco pezzi a quello che sarà il puzzle finale: cominciano a comparire valige piene di denaro che puntualmente vengono portate in banca, si scopre che Di Girolamo tiene una pistola nella sua camera, riceve strane visite di tanto in tanto. Alla fine la spiegazione di tutto sarà più banale di quello che lo spettatore probabilmente si era immaginato ma questo non conta, quello che conta è la voglia di riscatto e di fuga dal grigiore che il protagonista, ad un certo punto, vede accendersi dentro di sè: le conseguenze dell'amore, di un'amore in realtà mai nato, porteranno Di Girolamo all'autodistruzione fisica ma anche alla salvezza spirituale, la scelta di rispondere alle attenzioni di Sofia sarà la piccola spinta al primo tassello del domino che via via condurrà Di Girolamo ad una piccola, personale redenzione.

Il cinema di Sorrentino è fatto di uomini disillusi, di atmosfere spoglie e asettiche in cui questi personaggi vivono le proprie pene la cui causa è sempre da ricercare in se stessi e nelle proprie azioni, dal doppio Antonio Pisapia a Titta Di Girolamo a Geremia "Cuore D'Oro" de' Geremei fino al divo Giulio Andreotti, tutti vittime delle proprie scelte che li rendono soli e tutti schiavi delle proprie ossessioni che li fanno risultare tremendamente umani visto che ognuno ha delle piccole ed apparentemente malate ricorrenze; è un cinema degli sconfitti. Titta Di Girolamo non ha mai avuto coraggio verso niente, verso se stesso, verso la verità, verso la propria condizione, ma la cella d'isolamento in cui è stato (ma anche, si è) rinchiuso rimarrà serrata fino a che egli stesso non deciderà, un giorno, di aprirla per andare incontro alla fine. Non c'è amore nell'anima di Titta Di Girolamo, non ne è capace vista la consapevole assenza dello stesso di cui è sempre stato vittima, ci sono solo le conseguenze che lo portano all'annientamento, volontario e salvifico.

"Se solo mi fosse rimasta un po' di forza da darti, se solo avessi un po' di cuore da condividere con me stesso, se solo avessi un po' d'amore sarebbe per te" ("Vals För Satan", Kent)

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