A Virzì gli si vuole sempre tanto bene, anche con film un po' meno riusciti del solito. Perché Notti magiche è questo: un lavoro che non ha granché da dire, ma lo dice bene, in modo divertente, intrattenendo con grande mestiere. Dice cose tutto sommato scontate, non nuove, ma lo fa con ritmo, inventiva, freschezza, una galleria di personaggi scontati ma vividi, dei tipi abbastanza prevedibili che sanno riservare qualche sorpresa, che li rende più freschi e riscatta in parte qualche aspetto un po' troppo paradigmatico.

Anche un film che sembra andare col pilota automatico come questo si rivela utile, una piccola lezioncina su come si fanno i film minori. Prendi un periodo storico caratterizzato, con eventi trasversali che tornano qua e là (estate dei mondiali di Italia 90), una città inconfondibile (Roma), ambienti che traboccano parole e personaggi (il mondo del cinema), un sistema meschino e cristallizzato contro cui si scontrano tre giovani talentuosi e ingenui. E poi ritmo, velocità, la tensione di un presunto omicidio e una fotografia calda, sul colore seppia. Il resto viene quasi da sé.

Questo significa che si tratta di un lavoro meccanico e prevedibile? Non proprio. Perché Virzì non è stupido e sa che a lungo andare un sistema così ben congegnato può risultare stucchevole. E allora aggiunge, ben oltre la metà del racconto, quando i personaggi sembrano ormai scolpiti nel marmo, dettagli nuovi e gustosi, svolte, approfondimenti sui loro passati più o meno tormentati. E i tre ragazzi, i tre stereotipi escono dalla lastra bidimensionale e diventano personaggi veri. Insomma, ci si salva in calcio d'angolo.

Io mi sono divertito anche con tutte le figure minori. Sono quai delle funzioni che assorbono tipologie umane: c'è il produttore cafone e ormai alla canna del gas, che prende sceneggiature raffinate e le sfigura con un taglia e cuci vergognoso. C'è lo sceneggiatore esperto e acuminato, che inchioda con le sue freddure tremende. C'è il regista politico, rancoroso, che blatera sempre un po' le stesse cose, bevendo vino, ma nessuno davvero lo ascolta. Insomma, tanti manichini che però convincono, un po' per la scrittura sempre molto buona, un po' per gli attori azzeccati nelle varie parti.

E poi la varietà e la rotazione negli episodi che si succedono è tale da scongiurare la noia. Anche perché gli aneddoti sono tanti, le sottotrame si diramano bene, ci sono trovate che non hanno una vera utilità nella storia principale ma arricchiscono il piatto con risate e goliardate sempre abbastanza riuscite. Virzì non cede alla sciatteria, al grigiore, trova sempre qualcosa di assurdo e pungente da mettere in scena: che sia un pompino o la più assurda delle storie d'amore, che sia una scoreggia o una sortita su un set di Fellini. Tante risate che non sminuiscono la durezza dello sguardo del cineasta e le cose non finiscono propriamente bene.

La chiave di lettura è abbastanza lineare, per quanto condivisibile. O meglio, più che lineare, è un argomento un po' trito, soprattutto tra chi si occupa di cinema: i giovani di talento, i produttori avidi e ignoranti, la meccanizzazione del lavoro, quei registi che invece vedono il cinema solo come battaglia politica, la necessità di fare pellicole popolari per fare cassa e finanziare quelli in perdita, che vengono poi celebrati come “capolavori assoluti” dai giovani idealisti. Insomma, questioni arcinote, ma che non fa male riportare in auge, soprattutto se in modo divertente come in questo caso.

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