Un antico detto Zen recita: “Quando non hai più idee nuove da sfruttare, sfrutta quelle vecchie”.
Così sembra aver fatto la SempreGGiovane Patti con questo disco di cover (ormai di gran moda a quanto sembra) reinterpretando 12 grandi classici del rock (da qui l’originalissimo titolo). Non bastava Brian Ferry col disco osceno di cover di Dylan (?!) o gli Avion Travel con quell’altra mezza scivolata dell’album tributo a Paolo Conte… NO. Pure Patti Smith ci fa un album di canzoni non sue che, rifatte da lei, sembrano canzoni rockettine scialbe e molli come le gelatine glassate di certi baretti americani di periferia.
Canzoni prive di nervo che sarebbero anche passabili se non si sapesse che sono state scritte originalmente da Jimi Hendrix (per esempio) o dai Beatles o dai Nirvana. Arrangiate in maniera piatta piatta (classica formazione rock’n’roll trita e abusata dall’alba dei tempi) e suonate senza convinzione, la ex-sacerdotessa dei bei tempi andati ci sciorina addirittura una Everybody Wants to Rule the World dei defunti Tears for Fears, senza mordente e francamente inutile (almeno, parlo a livello musicale) da far rimpiangere l’originale. Si continua con le varie Helpless di Neil Young (ripeto: sempre meglio l’originale), Smells Like Teen Spirits dei Nirvana (minchia, ormai regnano ovunque!), resa quasi una ballad senza grinta e senza la forza espressiva di Curt Kobain, rendendola una cosa inutile e imbarazzante se confrontata con l’originale.
Si continua con la deturpazione dei Doors con Soul Kitchen (a dir poco noiosa, specie se riproposta in questo modo molto standard e privo di qualsiasi mordente), Gimme Shelter dei Rolling Stones (che anche qui uno si chiede: mapperchè?!), White Rabbit dei Jefferson Airplane (carina si, nessuno lo mette in dubbio… MAPPECCHE’?! PECCHE’?!?!!), The Boy in the Bubble di Paul Simon (resa qui banale senza nemmeno la chiave ritmica che era la vera sorpresa dell’originale), Within You Without You dei Beatles (noiosa versione) e qualche altro brano che sorvolo per decenza e pigrizia.
Insomma, una bieca operazione a dir poco “imbarazzante” per il basso livello esecutivo e interpretativo dei brani, arrangiati praticamente “alla cazzo” SENZA un minimo di idea (idee invece molto presenti e “lavorate” nelle versioni originali) e senza un minimo di verve, di aggressività e convinzione che ti fa pensare che “la sacerdotezza batta davvero la fiacca”.
Un lavoro appena decente che si fa giusto ascoltare a volume medio in auto, durante qualche viaggio lunghetto, non per la bellezza in se dei brani ma solo per la riconoscibilità di canzoni immortali che si faranno canticchiare sempre e comunque, indipendentemente dall’esecutore. Avesse fatto lo stesso identico disco Gianna Nannini (tanto per sparare un nome) sarebbe stata la stessa cosa, anzi…forse migliore, addirittura!
Patti bella, ascolta… non sputtanare la tua fine carriera con questi mezzucci di basso marketing: se non hai idee o non sei convinta stattene a casa a scrivere libri di poesie, aneddoti sul Greenwich Village newyorchese degli anni 60 e tutto quello che vuoi.
Ma appendi la chitarra al chiodo e non intaccare quella fama di “sacerdotessa amazzone cazzuta” che avevi. Fottitene dei detti Zen ed “esci dal Fare Musica” dall’ingresso principale con dignità e classe.
Ecchecazzo! Fallo almeno per noi che ti abbiamo amato per Horses, Easter, Waves e gli altri e non deluderci come fanno altri cantanti ormai in declino, meno motivati e seri di te.
Sarebbero 2 stelle e mezzo, ma arrotondo a 3 per le canzoni in sè e per l'affetto che provo verso la Smith...
P.S.
Consiglio una cosa: scaricatevi gli stessi brani originali dalla rete, metteteli nello stesso identico ordine e masterizzatevi una bella compilation come si deve. Scommettiamo che già al primo ascolto non rimpiangerete assolutamente questo dischetto insapore e senza mordente? La scommessa è aperta...
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