É oramai prassi consolidata ripercorrere la storia di Paul Chain ogni qualvolta veniamo chiamati a descrivere una sua opera. Per una volta, invece, ritengo sia preferibile incentrarsi sul valore intrinseco di un album che è lecito definire come il capolavoro formale del prolifico artista pesarese.

“Alkahest”, uscito nel 1995, è anche il lavoro più noto della sua carriera solista, soprattutto per la presenza dietro al microfono dell'ugola al vetriolo di Lee Dorrian, formidabile voce degli inglese doomster Cathedral, da sempre ferventi ammiratori del Paolone Nazionale, figura di indubbio peso nell'economia dell'intero movimento doom-metal post-sabbathiano.

“Alkahest” porta in sé tutta la magia della visone artistica di un alchimista musicale come Chain: parliamo di un classico doom-metal di ottima fattura, nutrito ovviamente delle suggestioni arcaiche ed esoteriche, e dalle pittoresche visioni che ammorbano da sempre, fin dalla fondazione degli storici Death'SS nel 1977, il percorso di un artista libero, al di fuori degli schemi, votato alla causa di una musica che scaturisce dal cuore e che sa muoversi sempre e comunque con classe e perizia a prescindere dalla forma di volta in volta assunta (che si parli di heavy metal, di sperimentazioni psichedeliche, musica dell'occulto o rock progressivo).

Fervente sostenitore del verbo dell'improvvisazione, Paul Chain riesce ad edificare in questa circostanza composizioni rocciose e fantasiose senza tuttavia disperdere idee e soluzioni (come accade in suoi altri lavori che potremmo definire maggiormente “free”), rimanendo aderente al rigore ed alla forma classica del doom-metal sabbathiano degli anni settanta, rivestendolo di una produzione nitida ed al passo con i tempi.

Le pulsioni all'improvvisazione sono qui relegate principalmente nelle pregevoli parti solistiche di una chitarra sempre ispirata, e più in generale nelle linee vocali che si articolano, come sempre, in fonemi inventati da Chain stesso che non corrispondono ad alcun linguaggio esistente (anche se gli insensati vocaboli sono di chiara ispirazione anglofona). Per il resto, le canzoni si muovono sicure su solidi binari: i binari di strutture, seppur semplici, ma ben congegnate, confezionate da strumentisti capaci e precisi nell'esecuzione.

La prima porzione dell'album presenta l'avvicendarsi di composizioni dai tempi più sostenuti e di altre dall'incedere più lento e solenne, come ogni vero album doom che si rispetti esige. In questa prima fase, i vocalizzi di Chain si assestano su un falsetto che al sottoscritto richiama alla mente il re di Canterbury Robert Wyatt: accostamento certamente azzardato, ma che ben rende l'idea di come la voce di Chain non sia propria la voce graffiante e grintosa, tipica dell'universo metal. E se da un lato possiamo scorgere in ciò il vero punto debole dell'opera, al contempo è innegabile che il canto sornione e patafisico di Chain produca nell'ascoltatore un effetto estraniante, ammantando il lavoro di un fascino tutto particolare. Di questi primi cinque pezzi, tutti di pregevole fattura, segnalo senz'altro il terzo brano “Sand Glass”, caratterizzato dagli avvolgenti preziosismi melodici della chitarra e delle tastiere, che, in modo ben dosato, condiscono l'intera impalcatura chitarristica dell'album. Anzi, è lecito aggiungere che proprio nelle partiture visionarie delle tastiere, sciorinanti sinfonismi elementari ma mai banali, vagamente echeggianti il rock progressivo degli anni settanta, Chain trovi una sua dimensione ideale: i suoi volteggi dietro ai tasti, infatti, risultano ancora più personali delle sue schitarrate, pur sempre derivative e tributarie dall'arte di sua Maestà Tony Iommi.

E' mia premura, tuttavia, focalizzare l'attenzione sugli ultimi quattro pezzi: un'opera nell'opera, un capolavoro nel capolavoro, che ha come protagonista il carisma vocale del sempre ottimo Lee Dorrian. La sua prestazione inevitabilmente carismatica, il suo estro intrinsecamente teatrale che fa dell'artista una delle migliori voci di sempre in ambito doom-metal, ci fanno capire che razza di capolavoro avremmo avuto fra le mani se l'ugola stregata di Dorrian avesse marchiato dal primo all'ultimo i brani di questo album.

I quatto brani costituiscono il perfetto vademecum per chiunque voglia addentrarsi nei temibili reami del doom-metal:

  1. la potente e death'ssiana “Voyage to Hell”, una pachidermica cavalcata dalle chitarre taglienti e dal groove vigoroso che per la peculiare prova vocale ci riporta direttamente agli album dei Cathedral di quegli anni (anche se, ricordiamolo, Dorrian in più di una circostanza affermerà che la collaborazione con Paul Chain influenzerà notevolmente il percorso della sua band, da qui in avanti improntato su un metal più vispo e visionario, sempre più lontano dalle asfissianti ed angosciose escursioni stra-doom delle origini);

  2. l'apocalittica “Static End”, la pesantezza fatta musica, una torbida discesa all'Inferno fra rantoli sgraziati, biblici recitati e maestose tastiere;

  3. l'eterea “Lake Without Water”, un'onirica ballata acustica che recupera le pulsioni più propriamente progressive di Chain ed che al contempo ci regala una delle migliori interpretazioni di Dorrian, che per l'occasione sveste l'abito del folle predicatore per adagiarsi su tonalità straordinariamente pulite e vellutate;

  4. la monumentale “Sepulchral Life”, la doom-song per eccellenza, dieci minuti di sfinimento chitarristico e vocale, con tanto di accelerazione centrale e successiva ricaduta negli abissi di un torbido fiume di feedback crepanti in dissolvenza.

Detto questo, non resta che abbandonarsi e soccombere alle note di quello che potremmo definire un capitolo fondamentale per il genere intero, scaturito dalla mente e dalle mani di quello che potremmo a sua volta definire il più grande artista che in ambito heavy-metal la nostra terra abbia mai partorito.

In the theatre of yellow and violet

We are like actors playing roles

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