I dolori del giovane Jason. Dio ce ne scampi.
Il film di Paul Greengrass, così come il predecessore The Bourne Supremacy, è già oggetto di studio per quanto riguarda l'evoluzione (o involuzione?) del cinema d'azione contemporaneo e la progressiva riduzione della ASL (Average Shot Length, durata media delle inquadrature). Ne ha scritto anche David Bordwell, grande studioso di tecnica ed estetica cinematografica: rimando al suo saggio per uno sguardo più competente e analitico di quanto io possa fornire (http://www.davidbordwell.net/blog/?p=1175).
Così come Tony Scott e Michael Bay, ma in maniera meno apertamente fracassona e più "autoriale", diciamo così, Greengrass è fautore di una cinematografia colibrì. Vale a dire munitevi di collirio prima della visione perché sbattere le palpebre potrebbe farvi perdere due o tre inquadrature come minimo: la situazione ideale sarebbe quella di Malcolm McDowell per la Cura Ludovico di kubrickiana memoria. Qui si parla di una media totale di circa due secondi a inquadratura; totale, perché quando il ritmo aumenta si arriva a pochi decimi di secondo, e neanche la persistenza retinica può essere di aiuto al malcapitato che decida di sottoporsi alla visione.
Un'aggravante è la macchina da presa a spalla in continuo movimento, che a confronto The Blair Witch Project sembra un piano sequenza di Tarkovskij. Non parliamo delle continue zoomate, della composizione visiva sfasata, di effetti strobo non richiesti e della totale incapacità (o menefreghismo) di fornire allo spettatore un'adeguata mappa geografica, o anche solo una minima percezione, degli ambienti.
Non c'è scusa che tenga. Il pretesto dell'immedesimazione a tutti costi è facilmente confutabile: Jason Bourne è una macchina da guerra con riflessi da lince e un acuto senso degli spazi, allora perché noi, gli spettatori, dovremmo essere posti in una posizione di inferiorità rispetto a lui, quando è sulla totale empatia che si dovrebbe fondare una trama del genere? Greengrass è uno dei registi più sopravvalutati in circolazione, almeno secondo il mio modesto parere. Non si tratta di originalità: la sua è un'estetica rozza, elementare e, peggio ancora, derivativa.
E per quanto riguarda l'intreccio? Poco da dire. Senza il personaggio di Franka Potente (assassinata all'inizio del secondo capitolo), l'unico vagamente interessante, restiamo con una manciata di figurine bidimensionali gettate nella mischia, protagonista compreso. Dopo estenuanti inseguimenti, a piedi e in auto, sparatorie ed esplosioni, arriviamo stremati ad una conclusione che in molti avevano già indovinato all'inizio del primo film della saga.
Comunque, pubblico e critica hanno apprezzato. Attendiamo impazienti il prossimo capitolo: The Bourne Epilepsy.
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