Amare questo film richiede un atto di fede un po' cialtrona, un po' disperata. Proprio come quella dello sciamannato Joaquin Phoenix (Freddie Quell) nei confronti dell'ipnotico e imperscrutabile Philip Seymour Hoffman (Lancaster Dodd).

Serata cineforum, monta la protesta degli amici: “Uno dei film più lenti che abbia mai visto”. “Non mi è piaciuto”. “Cosa voleva dire?”. Io intanto sto ridiscutendo il mio modo di vedere il cinema: meno testa, più pancia e cuore. I film non sono libri, non sono trattati filosofici, anche quelli più pensosi e metaforici, come quelli di P.T. Anderson. Sono ormai un paio d'anni che cerco di guardare attraverso le emozioni, ma la tendenza a razionalizzare è sempre rassicurante (e per questo va tenuta a bada).

Ma con The Master non si può razionalizzare. È come se volesse rappresentare nelle sue forme (e non solo attraverso i contenuti) la forza irrazionale della fede, la fede scellerata e cieca, quell'angoscia e quell'horror vacui che portano a credere in qualcosa, non importa cosa. E allora anche il film in sé dev'essere fatto di vuoti, dev'essere riempito di assenze e percorsi paradossali, per poter spiegare emozionalmente la follia quotidiana che porta a credere in un cialtrone.

Una tesi peregrina? Nel 2012, forse. Ma non dopo Vizio di forma e Il filo nascosto. Anderson costruisce i suoi film attraverso lenti deformanti, che impongono ogni volta regole formali diverse. Il protagonista di Inherent Vice è inaffidabile e drogato? Anche il narratore deve esserlo. Phantom Thread porta in sé il filo nascosto della fragilità fanciullesca di un uomo all'apparenza granitico: costruiamo allora il film come un ordito algido, che nasconde un cuore caldo, un cuore che chiede affetto come un bimbo malato a sua mamma. È un gioco divertente, che andrebbe provato anche con gli altri: come influenzano la forma i contenuti di Boogie Nights e There Will Be Blood? Con Magnolia è facile.

Non parlerò delle prove dei due attori, è superfluo (Freddie non è forse un Joker phoenixiano ante litteram?). Mi interessa invece parlare di credibilità effettiva o imposta. La voce di Lancaster è affidabile o no? Torniamo al discorso di Inherent Vice: la narrazione si piega alla sua storia, diventa nella forma ciò che è nei contenuti. E allora la versione di Dodd appare quasi sempre credibile, anche nelle sue derive più assurde, perché così la vede il povero Freddie. In questo senso, anche qui la narrazione è fallace, non affidabile. Ci sono giusto un paio di epifanie rivelatrici, ma poi, da buon adepto fedele al culto, il regista torna a seguire ipnotizzato le mosse del santone.

Le cesure narrative, secche e non spiegate, risentono parimenti di questa influenza. La fede non conosce ragione, sia nell'avvicinarsi sia nel distaccarsene. Non ha senso chiedere perché dei moti emotivi (e fisici) di Freddie. Sono “atti di fede”, nel senso deteriore del termine.

La noia e la lentezza lamentate sono dirette conseguenze di questo ordito libero, la mancanza di paletti logici angustia lo spettatore. Ma quanto è bello il ritratto di un uomo come Freddie? Quanto significato nelle sue espressioni corrucciate, nelle sue lacrime e nelle sue risate? Quanta disperazione nelle sue risposte, sincere o false che siano. Quanta pena nello sguardo del regista per questo uomo che sembra folle e problematico, ma rappresenta in verità ognuno di noi. Ognuno di noi quando smettiamo di illuderci di poter vivere senza qualcosa in cui credere. Quando torniamo all'ovile, quando abbassiamo la testa e ingoiamo un altro boccone amaro.

Ma alla fine c'è una speranza anche per lui (e noi), c'è un futuro senza le catene della fede. C'è lo sciabordare del mare e noi accoccolati a una statua femminea di sabbia. Soli ma liberi.

Ps. Il film dice un'altra cosa, che stavo dimenticando. Racconta della dipendenza del discepolo verso il maestro, ma al contempo dice la dipendenza del maestro verso il discepolo. In mezzo alla folla, lui. Il più disperato, il più feroce. A Dodd interessa proprio lui, come un figliol prodigo che, tornando alla casa del padre, lo fa felice più dei mille figli che mai hanno pensato di andarsene.

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Altre recensioni

Di  ilfreddo

 I tempi sono talmente lenti, vischiosi, allungabili come la pasta della pizza che sembra di poter vedere l’opera al rallentatore.

 La porta, per quel che mi riguarda, non si apre.