I tempi sono talmente lenti, vischiosi, allungabili come la pasta della pizza che sembra di poter vedere l’opera al rallentatore; durante la visione mentre Philip Seymour Hoffman canta un’agghiacciante canzone a cappella riesco senza problemi a guardarmi intorno ed è una platea in perenne movimento quella che scruto, come se sulle poltrone ci fossero tizzoni ardenti. Adulti che sprofondano sulle poltrone manco avessero la colonna vertebrale sufficientemente verde per potersi permettere quelle pose. Domani mattina saranno bestemmie ad alzarsi dal letto! Qualcuno boccheggia come un pesce sulla battigia con il mento, spesso doppio, che sfiora lo sterno e cerca ogni tanto di svegliarsi, magari prendendosi le palpebre tra le dita e pizzicandosi la pelle del viso. Orologi freneticamente consultati e spinti a forza in avanti manco le lancette fossero incollate ai vari quadranti. La lunga fila che esce dalla sala, come corridori dopo una gara estenuante. Non faccio eccezione e mi ritrovo nel cesso del cinema a buttarmi acqua sul viso e ringraziare, o maledire, il caffè lungo che mi ha fatto arrivare ai titoli di coda. E pensare che avevo adorato "Il petroliere": fortuna vuole che il 17 gennaio esca "Django", il nuovo di Tarantino.

Non ho la competenza cinematografica per criticare con cognizione di causa quello è già stato considerato uno dei capolavori del 2013 sicuro vincitore di un congruo numero di statuette, ivi compresa quella per Joaquin Phoenix, e quindi uso questo spazio non per fare una recensione ma per chiedere una chiave di lettura a questo groviglio di immagini. La porta, per quel che mi riguarda, non si apre. Posso dire che è indiscutibile la bellezza delle inquadrature e della fotografia, l’espressività recitativa dei due protagonisti e vattelapesca. A questo punto della frase è ovvio che dovrebbe arrivare una congiunzione avversativa, un breve respiro a suggellare e sottolineare la spaccatura, per poter cominciare a sparare le proprie critiche.

Molto probabilmente non l’ho capito e quindi, con questa de-provocazione, spero di far girare le scatole a qualcuno che con una recensione/un commento me lo spieghi. Perché la trama deve essere molto più complessa di quella che ho inteso per giustificare il complesso e pastoso ghirigori stilistico del film. "The Master" tratta dei disagi post bellici di un ex militare alcolizzato nel secondo dopoguerra. L'incapacità di adeguarsi ad una vita da civile si interseca con l'incontro fortuito con un santone, un magister, che con una lingua particolarmente allenata ed affabile specula sull’ignoranza altrui vendendo aria fritta. Fulcro del film la frase il cui senso parafrasato è "tutti hanno bisogno di un capo da seguire, la libertà non esiste". Freddie con la sua ira solo parzialmente repressa, unita ad una frenesia spesso incontrollabile, è l'unica persona capace di sfuggire dalle mani del grande maestro (cfr. scena della motocicletta). Ne nasce tra i due un'attrazione/odio inevitabile che si prottrarrà con i suoi sbalzi fino al termine. Personaggi forti e complessi, resi da due grandi attori che si sfidano a suon di monologhi e primi piani per 130 minuti complessi e poco digeribili fatti di ottime inquadrature, pochissima colonna sonora e tantissimi sbadigli.

Trovo una similitudine con una mostra di arte contemporanea di qualche annetto addietro. Un gran bruciore al posteriore perché dietro quelle tele monocromatiche e strappate mi pareva di poter vedere l’artista ridere a crepapelle, mentre indicava toccandosi la pancia chi, pagando, cercava di dare significati inesistenti. Ma forse, ed è probabile visti gli unanimi giudizi da superlativo assoluto sul web, nella sala del cinema di ieri nella mia cittadina di provincia c’è stato solo un appuntamento di persone assonnate e senza alcun acume critico cinematografico.

Mi faccio quindi da parte e vi ascolto; stavolta però, mi prendo un cuscino.

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