- Perché ha girato questo film?

- Perché era necessario.

Questo potrebbe essere l'incipit di una conversazione con Paul Verhoeven su questo film. Sì, perché Elle è uno di quei lavori che cerca di dare un quid conoscitivo in più al suo spettatore. Nel senso che uscendo dalla sala si porta con sé alcuni, diversi, spunti sulla sua vita, sul modo che ha di valutarla, di valutare le persone e le loro azioni. Ci sono pellicole così, che si proiettano fuori dallo schermo, che non sono solo belle da vedere, ma si riverberano nei pensieri quotidiani e magari li elevano, li trasformano, li rendono più complessi.

La sfinge che emerge dalle vicende narrate è particolarmente impenetrabile e contraddittoria. Una protagonista che sfugge ad ogni definizione, che è vittima e carnefice, premurosa ed egoista, madre e figlia, sfinge appunto, apparentemente insensibile eppure profondamente connessa al mondo e alle tante figure che la circondano.

Michèle Leblanc non è in realtà solo un personaggio. È un concetto, un concetto limite. Rappresenta il superamento di qualsiasi pregiudizio e giudizio morale sull'agire umano. Michèle incarna il superamento della dicotomia bene – male, amore – odio, vittima – carnefice, eccetera. Perché assorbe tutto nella sua caleidoscopica figura.

Ma la visione di Verhoeven è ancor più radicale. Non basta un solo personaggio per scardinare il sistema di valori (se vogliamo dirlo, di impronta cattolica) che è innervato alla visione occidentale del mondo. E allora ecco una serie di figure ambigue: l'ex marito farfallone ma presente, la madre lussuriosa ma profondamente sensibile e sentimentale, il figlio inetto ma capace di un colpo di reni decisivo, la fidanzata del figlio stronza ma … , il vicino educato e galante ma … , la coppia di amici apparentemente solida, il collega giovane rancoroso ma, l'altro devoto ma.

Quello che viene tratteggiato è un incredibile (per ricchezza e profondità) affresco umano e sociale. Tutto indirizzato a scardinare la logica del pregiudizio, della correlazione facile tra apparenza ed essenza, della distinzione manichea tra bene e male.

E alla fine, in un quadro sociale così contraddittorio, ambiguo, promiscuo, emerge chi, come la protagonista, sposa le contraddizioni, le abbraccia, si immerge nel lavacro corrosivo della vita e delle sue incoerenze, dei suoi orrori (apparenti?) e delle sue gioie (altrettanto apparenti?).

Questi concetti, per niente scontati, vengono resi con grande efficacia cinematografica grazie a due fattori principali. La sceneggiatura di David Birke, che soprattutto nella prima metà è quasi vertiginosa per quantità di contenuti veicolati, e la prova dell'attrice Isabelle Huppert. Una figura così gigantesca non può che mettere in secondo piano gli altri personaggi, eppure la tessitura diegetica riesce a dare spazio a tutti. Semmai, sono gli attori a non tenere il passo della Huppert, che regala una serie di espressioni ambigue straordinarie: a volte è impossibile distinguere tra sorrisi e ghigni malefici.

Anche lo stile si fa portatore di questa duplicità onnipresente. Così, dramma e farsa si alternano continuamente dando un passo in più all'opera, che sul finale tende a voler chiudere troppe questioni, ma sarebbe stato più saggio e coerente lasciare tutto in sospeso.

E poi, se vogliamo Elle è anche una lezione di dignità femminile, o meglio, di superamento vero delle discriminazioni di genere. Superamento in entrambi i sensi: la donna è leader, la donna è spregiudicata, la donna è anche vittima ma non fa mai del vittimismo. Perché nella vita, questo ci dice il film, le vittime e i carnefici si confondono continuamente.

8/10

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