Pearl Jam, 17.09.06, FilaForum 

Scaletta: Go, Last Exit, Save You, World Wide Suicide, Corduroy, Severed Hand, Unemployable, Even Flow, I Am Mine, Man Of The Hour, MFC, Daughter / (Another Brick In the Wall Pt. 2), Faithfull, Comatose, State Of Love And Trust, Why Go
Bis 1: Picture In A Frame [cover di Tom Waits], Parachutes, Black, Crazy Mary, Given To Fly, Alive
Bis 2: Do The Evolution, Big Wave, Leash, Rockin' In The Free World, Yellow Ledbetter

 

Da un commento a caso su Debaser.it: “…in una società che ormai ha ucciso ogni diversità e si avvia ad inscatolare ogni elemento considerato fuori posto, un concerto dei Pearl Jam assomiglia pateticamente ad una riunione di no global, ad una demagogica canzone di un liga-jova-pelù, erano grandi, il rock è leggenda, quindi lo saranno per sempre, ma dentro quel per sempre io non ci metto il presente”.
 
Cazzate. Tante (tralasciamo la sociologia alla Alberoni della società fabbrica-etichette), inutili (la riunione dei no global…difatti accanto a me avevo un pinguino incravattato) e grosse quanto una casa. Liga Jova e Pelù, per esempio, non hanno mai avuto vent’anni a Seattle, so…fuck, Eddie&Co., dopo quindici anni di onorata carriera, non hanno affatto perso la voglia di incendiare dal vivo.
 
Il FilaForum è un formicaio di sorrisi e eccitazione, magliette degli Alice in Chains e degli U2, dei Mother Love Bone e dei Tool, giacche a tre bottoni e golfini da oratorio, cristoni larghi quanto il cancello d’ingresso e grissini con gli occhiali a fondo di bottiglia. Di tutto un po’, magari come succede per Morandi e Baglioni, anche se secondo me da loro di camicie di flanella non se ne vedono.
I Peggèm si presentano puntualissimi, partono con Go ed è subito un bel viaggiare. Venghino siòre e siòri, il festival dei ricordi è ora ed è qui. E ognuno a rosariare i testi come fossero invocazioni, chi saltando, chi fermo immobile, chi a squarciagola e chi con le labbra socchiuse, tutti keepin’ on rockin’ in a free world, a ringraziare una band che, da Ten in poi, si è ritrovata a interpretare le emozioni di tanti, tantissimi piccoli indiani di città. Geronimo è là sul palco, sarà anche vecchio e stanco ma tracanna rosso dalla bottiglia come un pischello al primo sabato sera con gli amici, ha ancora la voce tonante di sempre, e – detto in una parola – ama chi ha davanti. Non sarà un atteggiamento molto punk, ma fa effetto. Detto per inciso, il buon Vedder non stecca mai, neanche quando, al secondo encore, inciampa e vola di faccia per terra. Ok ok, qua si divaga volentieri nel mitologico, ma per il paparino di Daughter si può anche fare.

Momenti da pelle d’oca? Tanti. Ma quelli te li tira fuori pure un RobboUilliams, se il pubblico lo asseconda. Paraculate? Altrettante, tipo “dopo quindici anni di concerti siete il pubblico che canta meglio” e via di questo passo. Ma chissenefrega, sono dettagli, a tre metri dai Peggèm capisci in un attimo di non aver sbagliato niente, qualche anno fa, nello scegliere questo modo di vivere la musica, nel gioire e incazzarti con tutta la passione che hai, e ora la vedi, la passione, nelle corse incrociate di McReady e Gossard, nel sudatissimo assolo di batteria di Cameron, nel faccione da bucaniere di Boom Gaspar alle tastiere, nell’EddiVedder che dedica Picture in a Frame, Tom Waits, alla sua bimbetta e non appare né ridicolo né attempato.

Questo è un concerto dei Peggèm. Ma questo sono anch’io, a sedici anni, che mi catapulto in bici giù dalla casa vecchia di Budda con Spin the Black Circle sparata oltre il massimo nel walkman, a cercare quel brivido che i Peggèm, una sera sì e l’altra pure, rimettono in circolo salendo su un palco.

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