Anche le più grandi storie d'amore talvolta tentennano davanti all'impietoso passare del tempo. O perché cambiamo noi, o cambiano gli altri, o cambiano le circostanze, insomma qualcosa cambia sempre, ed è quello che ci frega, perchè non eravamo preparati o perché a quel punto ci troviamo davanti un'ottima scusa per mollare, e allora lo facciamo. Io amo i Pearl Jam incondizionatamente e con tutta me stessa da oltre 20 anni, un record per quanto mi riguarda (se loro amino me questo non posso dirlo, posso dire però che è del tutto secondario); abbiamo avuto le nostre piccole crisi, qualche breve periodo di distaccamento ma, si sa, a volte sono queste temporanee difficoltà a salvare un'intera storia. Ne dico una, una sola, il disco con quell'avocado in copertina a me non è andato proprio giù, e quello dopo a malapena (anche se lì ci sono Just Breathe, e Amongst the Waves, canzoni molto molto piacione che infatti piacciono pure a me)... Come sta la nostra storia dopo 20 anni?...

Nell'anno di Lightning Bolt, quando ormai i nostri 5 mostrano le loro rughe incorniciate da lunghi capelli (come nel caso della seconda giovinezza di Stone Gossard) o da primi accenni di stempiatura (come nel caso di chi, non lo voglio dire)? Nell'anno in cui nelle foto di lancio del disco il signor Vedder sfodera un raro sorriso per la stampa e posa davanti a tutti gli altri, invece di nascondersi dietro un dito medio alzato o sotto un cappello, o mettersi di spalle? E' ancora amore? Beh, è' molto più facile rispondere oggi dopo averli visti dal vivo, poche settimane fa, a Charlotte, in North Carolina, per la penultima serata del primo round di date del tour nordamericano. Una piccolissima serie di premesse: a me essere lì sembrava un miracolo, qualunque loro concerto mi è sempre sembrato un miracolo, per di più negli Stati Uniti, per di più in luoghi che amo, per di più dopo 3 anni di astinenza... tutto questo ammetto che beh, forse un pochino, giusto un pochino, possa avermi influenzato.... devo anche dire però che: l'ultimo album mi piace ma non mi fa impazzire, monitoro le loro setlist da quando hanno ripreso a suonare dal vivo, e diverse scelte mi hanno lasciato alquanto scettica, e quindi il mio stato d'animo è ovviamente ben predisposto ma non del tutto preparato all'incanto, anzi. Mi incuriosisce anche molto, devo ammetterlo, osservare i PJ nella loro patria, mi chiedo chi e come siano i loro fan americani, se l'atmosfera del concerto sarà la stessa di quando vengono in Europa e in Italia.

Qui da noi, capiamoci (chi li ama e chi li ha visti in tournée nel nostro Paese potrà testimoniarlo) i fan dei PJ provano per i loro idoli qualcosa che assomiglia molto di più a un sentimento religioso che non alla semplice passione musicale; loro lo sanno (o questa è la spiegazione che mi do io), lo sentono, e quando vengono offrono questi show memorabili dove lo stupore sopra e sotto il palco è tangibile e dove, mi viene da pensare, qualcosa di magico viene spruzzato nell'aria per cui a fine concerto si vedono queste orde di 30-40 enni camminare come zombie chiedendosi perché è finita e quando potranno finalmente averne ancora un po'...

Ma ora andiamo a Charlotte, sennò ci perdiamo per strada. Cosa dire di notevole a proposito dell'attesa nelle ore prima dello show? Che non esistono banchini di merchandising non ufficiale, c'è quindi un solo tendone che vende t-shirt a 35 dollari e portachiavi a 20 davanti a cui si forma una lunga fila paziente fin dalle tarde ore del mattino; esistono invece, e sono anche belli pressanti, i bagarini, apparentemente divisi in fazioni diverse ma in realtà capitanati da un unico delinquente tarchiato e insolente (di chiare origini italiane) che prova a vendere e comprare biglietti da tutti quanti. Per il tempo che resto in fila davanti alla Time Warner Cable Arena (ed entrerò per seconda in assoluto, quindi fate i vostri calcoli), un predicatore con megafono cerca di far redimere i presenti urlando "attention sinners! Risk of fire!", cantilenando il nome di Eddie Vedder e storpiando Even Flow, e me fa venire in mente il Don Zauker del Vernacoliere... al momento dell'ingresso all'arena mi informano che gli zaini non sono consentiti, quindi mi costringono in modo abbastanza scortese a buttare in un cestino tutto il contenuto cestinabile mentre il resto (portafoglio, cellulari ecc) finisce compresso nelle mie tasche (ed è forte la tentazione di chiedergli come può essere possibile che per lo Stato in cui mi trovo sia legale entrare con una pistola in un ristorante ma non con uno zaino in un'arena, ma ovviamente ricaccio tutto in gola). Il mio disappunto deve essere abbastanza evidente tanto che vengo presa sotto braccio da un signore gentile dell'organizzazione che mi chiede pazienza e comprensione per questi regolamenti talvolta assurdi, io gli spiego che non avevo letto di questo divieto da nessuna parte, lui nota il mio accento mi chiede di dove sono e quando gli dico che vengo from Italy to see Pearl Jam tonight, ha un moto di estasi e mi accompagna ad un bancone tipo guardaroba (non in funzione) dove due ragazze ritirano il mio zaino e tutto quello che voglio lasciare lì a gratis. Ringrazio tutti e mi fiondo al mio posto, che è abbastanza centrale davanti al palco, diciamo secondo anello basso... nell'arena non c'è ancora nessuno, sono tutti a comprare pollo fritto e coca cola perché magari è passata mezzora dall'ultimo spuntino e temono la morte di stenti. Io mi siedo, invece, e mi godo il panorama; queste arene sono bellissime, sembrano grandi quanto i nostri palasport e invece sono il doppio...

Un paio d'ore passano senza attacchi di noia, e mentre sono lì che mi chiedo se c'è un gruppo di supporto oppure no (perché effettivamente il biglietto non segnala niente in proposito), le luci si abbassano e 5 uomini più un hawaiano salgono sul palco, e uno di loro cammina in un modo che riconoscerei tra un milione. Sono looooroooooo!!!!!!!!!!!!! Ora lo so, mi rendo perfettamente conto...  ho quasi 40anni e ho superato (non da molto per la verità) la fase adolescenziale in cui la tua rockstar preferita è anche il tuo sogno erotico e il tuo più grande motivo di sconvolgimento emotivo, però... però Eddie Vedder sarà sempre Eddie Vedder per me, per ragioni che probabilmente vanno oltre il suo talento ma anche per il suo essere unconventionally but definitively sexy (fatemelo dire in inglese, che mi vergogno meno)... e quando prende il microfono per la prima nota, il primo verso, che stasera è Can the word sound... (l'incipit di Pendolum), il mondo semplicemente smette di ruotare. Sapevo che non ci sarebbe stata una Release o una Long Road ad aprire questo live, ed è così, ed un po' mi dispiace, perché entrambi i pezzi sono per il mio personalissimo gusto il modo pressochè perfetto di partire, cullando il pubblico e facendolo scaldare con cori in crescendo che regalano da subito brividi veri. Pendolum non è un pezzo con queste caratteristiche ma è senza dubbio una delle migliori canzoni di Lighting Bolt (qualcuno direbbe a questo punto che è destinata a diventare un nuovo classico, ma noi non lo faremo); riesce sicuramente a creare un certo tipo di atmosfera, che è intima, quasi confidenziale, impresa non scontata, date le circostanze.... e se a quanto pare il mondo ha smesso di dondolare sul rockin' horse of time di Release, è rimasto comunque un "ah-ah-ah-ah" che produce quello stesso effetto di moto leggero e perpetuo, che è dolce e teso allo stesso tempo, e che permette a Vedder di giocare a fare la rockstar vissuta dal cantato intenso e sensuale (non mi risultano altri ah-ah-ah- nella discografia dei PJ prima di questo) mentre al tempo stesso sembra che ad ogni sillaba martelli con un dito sulle nostre tempie.

Pendolum sfuma e arriva Low Light, scelta non scontata, e che ci fa continuare a dondolare, mentre abbiamo la conferma che le seconde voci stasera le fa McCready.... È poi la volta di Present Tense, il manifesto filosofico di No Code, dai contenuti abbastanza banali a dire il vero, ma cantati da Eddie Vedder prendono tutta un'altra intensità (tanto che nel momento in cui mi trovo ad urlare "or you can come to terms and realize you're the only one who can forgive yourself ooohhhh" mi si rompe la voce e sento due lacrimoni scendere lenti, e vivaddio, sono ancora viva). Finale tiratissimo ed esplosivo, ad occhio e croce siamo in 20mila ad avere voglia di cominciare a saltare, the sooner the better. I nostri sembrano capirlo e ci accontentano: Last Exit irrompe, inattesa e accompagnata da cori liberatori e precede Do the Evolution, e ora si salta davvero. È ora di salutare il pubblico, Eddie scherza sulla loro decennale assenza dalla città, introduce il nuovo disco e da questo estrae la title track Lightning Bolt (insolito e divertito ritratto femminile, e se quelli precedenti si chiamano, ad esempio, Breakerfall o Parting Ways non si può non storcere un pochino il naso, ma mi sono ripromessa di non cadere nella tentazione di rimpiangere tempi andati come un'odiosissima e saputella fan della prima ora e non lo farò); l'ironia lascia il posto alla rabbia, e arriva Mind Your Manners a riversarsi come un tuono sulla folla (e peccato che ho appena detto che non voglio fare confronti, sennò avrei potuto far notare come questa assomigli tanto a Spin the Black Circle, ma sia come dire più bruttina), seguita da una Severed Hand che nel passaggio da disco a live guadagna 100 punti buoni, e poi signori facciamo sul serio, ecco a voi Even Flow, rabbiosa, esplosiva, catartica.

Cambio di tempi con Daughter, sicuramente tra le top 3 esecuzioni della serata anche per la portata impressionante dei cori; Eddie introduce un brano del nuovo disco, l'opening track Getaway (live debut) seguita da Sirens (introdotta da un'anticipazione sportiva su un risultato sportivo temporaneo della World Series e un "there might be sirens in Boston tonight"), lentone struggente che se fossimo negli anni 80 sarebbe accompagnato da un mare di accendini accesi e invece qui stasera, come ormai da molti anni, brillano solo gli iphone. La vera sorpresa arriva subito dopo: Setting Forth, da quel capolavoro che è la colonna sonora di Into The Wild, suonata con leggerezza, illuminante e perfetta come solo certe canzoni brevi possono essere, la cui coda sfocia nell'esasperato j'accuse di Not For You, pezzo che ci ricorda un tempo in cui la rabbia dei PJ era diretta a target anche allora "politici" ma meno globali e più circoscritti al mondo della musica, e il loro five-against-one non aveva davvero niente del clichè che a volte, ahi ahi, è sembrato di sentir trapelare negli ultimi lavori. Ecco, ci sono ricascata.

Sempre da Vitalogy arriva di seguito Immortality, e poi la nuova Infallible e Unthought Known, fino a uno dei brani che sicuramente qui tutti stavano aspettando, l'eterna Rearviewmirror, dove ognuno, e ognuno per i fatti suoi, urlando, caccia fuori un po' di veleno per piccoli o grandi torti subiti nella vita da un qualcuno che però ci siamo finalmente lasciati alle spalle. Arriva la pausa; lo yankee in piedi alla mia sinistra mi urla nell'orecchio che ha notato con piacere che so tutte le parole delle canzoni, io gli rispondo rivelandogli che per di più sono italiana e quello non la smette più di dire woooowww that's amassszing e lo racconta a tutti (devono pensare tutti che siamo dei trogloditi, e non ci vanno neanche tanto lontano, mi sa...). Il primo encore inizia con una unplugged session dove manca solo un caminetto acceso... Eddie al centro si fa accompagnare prima da Stone poi da Jeff per un quartetto da lucciconi: è tempo di dediche e arrivano Bee Girl, la raffinata Yellow Moon (bellissima sul serio, sul disco e live), Off he Goes e Just Breathe. Giusto un attimo prima di trovarsi tutti a ballare a coppie tipo Tempo delle mele, i nostri ci risvegliano bruscamente con Given to Fly, ma soprattutto con Betterman (con Save it For later in coda, altro momento assolutamente top della serata) per poi chiudere l'encore con Porch cantata per buona metà sulle spalle del pubblico da un imprudente e atletico Vedder che sembra non volersi arrendere al tempo che passa. Se vi state chiedendo se lui (e gli altri) abbiano voce, gambe, voglia, energia per suonare canzoni come questa dopo 20 anni, la risposta è inequivocabilmente SI'.

Il secondo encore inizia con Eddie che alzando le braccia conta one, two, three, four e per i 20000 della Time Warner Cable Arena è un indizio più che sufficiente per intonare senza esitazione all'unisono I seem to recognize your face... Elderly Woman anticipa la splendida cover degli Who The Real Me,  un'impegnativa esecuzione che va giusto bene per adesso, quando si possono sparare tutte le ultime energie, prima del terzetto finale: Black, Alive (due pezzi incredibilmente assenti da molte delle serate precedenti) e la chiusura con All Along the Watchtower.

Il concerto finisce con i 5 che, come loro solito, ringraziano a profusione, Eddie che li nomina uno ad uno, che condivide la sua bottiglia di vino con la prima fila, Jeff con la maglietta dei Sonics, Matt Cameron in piedi sul suo sgabello. La band è sembrata equilibrata come non mai, non c'è spazio per protagonismi, niente super assoli di chitarra e batteria, Boom Gaspar un passettino indietro, tutti molto sereni, molto devoti, molto sorridenti. Sarà per questa ripartizione dei compiti, sarà perché nessuno di loro è un dio nel suo mestiere, un sultano del suo strumento, nessuno tranne Vedder ovviamente, sarà per questo ma la personalità del frontman prorompe sulle altre impietosamente, che lui lo voglia o no (dubbio veramente amletico questo e destinato a rimanere, almeno per me, insoluto)...

Che dire? A inizio serata Eddie aveva preannunciato che avrebbero cercato di colmare il silenzio di 10 anni di assenza, e così è stato, eccome. 30 pezzi, 2 ore e 50 minuti di musica, intervallati da strepitosi siparietti tra lui e Stone, come quando sempre all'inizio, Vedder racconta in un misto di umiltà e orgoglio che per la seconda settimana consecutiva Lightning Bolt è al 1 posto delle classifiche, e confessa è bello essere il numero 1, quando a volte qualcuno vorrebbe far sentirti il numero 2; poi per smorzare i toni e non lasciare neanche la minima sfumatura polemica alle sue parole ridacchia concludendo "e pensare che per essere al numero 1 non abbiamo nemmeno dovuto mostrare le tette", si volta verso Stone che non perde tempo e a quelle parole si tira su la maglietta... 20000 risate... Oppure, quando, introducendo Small Town, Eddie confessa che il merito di quella canzone va a Stone, cioè la canzone è sua, l'ha scritta lui e la stava suonando in una stanza, ma fu Stone a sentirla dall'altra parte e a dire che era molto buona e doveva essere inserita in un disco... altra dose di euforia generale... Ecco, forse rispetto alle date viste in Italia, questa è la differenza più lampante (dettata probabilmente anche da motivi tecnici, cioè linguistici): l'aria è veramente molto familiare, nel senso di meno solenne, molto naturale, a nessuno, nè sopra nè sotto il palco, sembra di partecipare a un rito collettivo e irripetibile, come avviene qua da noi. Né meglio né peggio. Io ho avuto semplicemente l'impressione che quando i PJ varcano l'oceano per suonare nel vecchio continente, anche oggi, dopo 20 anni e senza più alcun bisogno di conferme, si meraviglino ogni volta di quello che si presenta davanti ai loro occhi. Chi scrive ha avuto la fortuna, anzi la grazia, di essere presente a Pistoia nel 2006 e ricorderà per sempre quando, alla fine di Black, Vedder si è fermato con la mano sul petto ed estasiato (dopo che la folla era andata avanti per minuti, a musica finita, a cantare du-du-du-duduhh) a malapena riesce a borbottare "you fixed a broken heart". Ecco, è difficile immaginare una scena così in un contesto come quello del (bellissimo) concerto di Charlotte.

Ah, un'altra differenza: il volume, là, è discretamente più basso che ai concerti qua (e qualcosina forse si perde). Sulla scelta della scaletta mi reputo, a dispetto delle paure precauzionali pre-concerto, abbastanza soddisfatta, anche se non del tutto: riuscite e più che condivisibili, a mio parere, le selezioni dagli ultimi album, un tantino discutibili alcune da quelli precedenti. Se questa sia una setlist a compiacimento (o turbamento) del gusto americano, o se invece queste sono le canzoni che i PJ probabilmente suoneranno dovunque d'ora in avanti, è presto per dirlo; un leggerissimo dubbio che si tratti di una comprensibile voglia di cambiare c'è. Sicuramente ed esageratamente premiati gli album di studio, sono mancate quasi del tutto le perle disseminate qua è là negli anni tra b-sides, progetti paralleli e soundtrack... una Crazy Mary, una State of love and trust, una I got id, io l'avrei voluta. Ma è solo rimandata, ne sono sicura. Sono questi alcuni dei pensieri che mi affollano la testa mentre esco. Ed uscendo, un fan per cui quello era stato il loro primo concerto, mi fa: "è la prima volta che ho la sensazione che qualcuno abbia suonato per me". Credo di aver capito cosa intendesse, anzi un po' l'ho invidiato, perché le emozioni della prima volta sono impareggiabili. Per me era la sesta, o la settima, non ricordo, ma mi rendo conto che quello che provo a vedere i PJ dal vivo non lo provo con nessun altro, anzi ogni loro esibizione live mi convince che siano la migliore band in circolazione (e diciamo genericamente che in 25 anni che vado a concerti ho visto un po' di tutto, tra band grandissime e piccolissime e comunque tanta bellissima musica dal vivo); mi rendo anche conto che quello che ho scritto non ha fondamenti logici e razionali ed è legato (quasi esclusivamente) alla profondità di quel sentimento che credo di aver chiamato amore all'inizio di questo testo e che mi porto dietro da quando un pomeriggio a 16 anni la radio ha trasmesso Alive e io ancora prima di sapere come si chiamassero ho deciso che sarebbero stati loro la "mia" band.

L'odore d'erba nel palazzetto, la camicia di flanella a quadri di Vedder, le dita a corna che si alzano di tanto in tanto dal pubblico verso il cielo: qualcuno potrebbe chiamare tutto questo old school. Qualcuno potrebbe invece dire che in piena rivisitazione degli anni 90 e del grunge, sia stata una sera per fashionisti. Io mi sentivo semplicemente a casa.

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