Non so quanti metterebbero nella propria top 3 dell’anno un disco dei Pendragon, band non di certo blasonata e/o sotto i riflettori mediatici… Ma se la classifica è stilata da un dichiarato progger ecco che diventa tutto tremendamente normale!

Senza scherzare, i Pendragon hanno tirato fuori un album veramente brillante ed ispirato sia per idee che per melodie. Noti fra il pubblico prog essenzialmente come band neo-progressive ispirata agli anni ’70 e ’80 essi hanno avuto il coraggio di mettere alle spalle il loro passato e di reinventarsi nel nuovo millennio producendo album perfino più freschi e ispirati di quelli realizzati in passato; dopo il neo-prog sinfonico, sognante e romantico realizzato negli anni ’90 hanno tentato una strada più elettroacustica con “Believe” per poi avvicinarsi ad un sound più spigoloso con anche influenze metal con i successivi “Pure” e soprattutto “Passion”.

“Men Who Climb Mountains” conferma la voglia della band di sperimentare e di rinfrescare il prog. Sound sempre piuttosto spigoloso e ricco di nuovi suoni; stavolta però si è cercato di evitare le incursioni metal e di puntare su contaminazioni prossime all’alternative rock di Radiohead e Anathema mantenendo comunque un sound cupo a volte perfino riconducibile ai Tool. Tuttavia si registra una vena melodica molto sentita, con aperture davvero struggenti, nonché una più o meno riconoscibile influenza pinkfloydiana in certi frangenti.

L’introduzione è affidata a “Belle Âme”, dove subito viene evidenziata la melodia, grazie ai brillanti arpeggi di chitarra e ad una voce sottile ma intensa. È soltanto l’anticamera della successiva “Beautiful Soul”, che oltre a tradurne il titolo in inglese ne riprende anche il ritornello; qui però i suoni sono più duri e c’è un piccolo spazio anche per i particolari suoni elettronici di Clive Nolan. “Come Home Jack” ha una bellissima e lunga intro fatta di chitarra con effetti di eco, deliziosi tappeti d’organo vibranti nella parte centrale e perfino parti di chitarra in pieno stile alternative rock con effetti quasi grunge, se vogliamo esagerare. “In Bardo” è più che mai atmosferica e cristallina, sorretta dalla sua delicata linea tastieristica con Nolan che vi aggiunge preziosi “bip”, nonché dai delicati arpeggi acustici; vi è un bellissimo assolo di synth distorto che per cadenza e acidità potrebbe quasi far tornare alla mente quello di “Any Colour You Like” dei Pink Floyd, nonché una bellissima sfumata finale con virtuosismi di piano e batteria (offerti dal nuovo entrato Craig Blundell).

Arriva quindi il momento dell’album che personalmente mi emoziona di più: si tratta dell’eccellente ballad “Faces of Light”, brano che sembrerebbe più che mai essere debitore verso gli ultimi Anathema, vuoi per le sue linee relativamente semplici sia di piano che di chitarra così come per le linee vocali, la presenza di una voce femminile e la sua melodia in crescendo; personalmente la paragonerei a “Dreaming Light” ma ho trovato una somiglianza anche con “Fix You” dei Coldplay (impossibile non riconoscere tale somiglianza nell’attacco di chitarra centrale ma anche il finale all’organo sembra preso da lì e spostato alla fine).

“Faces of Darkness” invece presenta un sound più aggressivo ma senza esagerare e sperimentazioni elettroniche che qui raggiungono il loro picco. “For When the Zombies Come” è invece più radioheadiana che mai: quegli effetti glissati quasi “piagnucolati” che permeano il brano rimandano chiaramente alla memoria “Subterranean Homesick Alien” da “OK Computer”.

“Explorers of the Infinite” rappresenta invece, a detta del sottoscritto, il punto più basso del disco; brano assolutamente gradevole, ha un’intro molto buona con fraseggi acustici molto belli e pure un riverbero che farebbe pensare ad un theremin (sarà veramente un theremin???) ma intro a parte il brano sa di prolisso, si ha quasi l’impressione che le melodie si rigirino troppo su loro stesse, ripetendosi e risultando poco dinamiche; non è una croce sopra ma ci si aspettava di più dal brano più lungo dell’album. Ottima chiusura con “Netherworld”, lenta e rilassata, con i soffici tappeti tastieristici e ancora una volta vibranti tappeti d’organo; anche qui vi è la voce femminile e un assolo di synth leggero ma acido e ricco di effetto.

Giunti alla conclusione rimaniamo decisamente soddisfatti del prodotto finale; album ispirato e ricco di idee interessanti che conferma l’ottimo momento della band britannica. Davvero una delle migliori uscite prog dell’anno. E la cosa sorprendente è che questo momento di grazia e di ispirazione della band arriva a ormai trent’anni di carriera suonati; in pratica i Pendragon sono passati dall’essere negli anni ’90 il classico esempio di band tendenzialmente criticata perché troppo debitrice del vecchio prog (che poi non è neanche vero) ad essere una di quelle band che rinfrescano la scena nonché una promessa per il prog del futuro. Tanto di cappello!

Il 2014 è stato un anno davvero positivo per le uscite discografiche, speriamo che il 2015 ci regali altri bei disconi!

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