Il cerchio si chiude. È tempo di voltare pagina, di abbassare le saracinesche sul passato. Una storia è terminata, ne inizia un'altra, nuovo spirito, nuova energia, nuovi interpreti. Anche se quelli vecchi mancano da morire. Nel 1997 i Pennywise si riaffacciano sul mercato discografico dopo il momento più duro e luttuoso: la morte del bassista Jason Thirsk, un altro martire del rock ucciso dagli eccessi e dagli stravizi. Al suo posto subentra Randy Bradbury, il quinto membro non ufficiale del gruppo, amico e mentore di Jason: uno della famiglia, anche se non basta certo a lenire lo strazio.

In quel 1997 i Pennywise danno alla luce il loro personale "Black Album", mentre i Metallica sono in piena fase Reload e il boom del pop punk comincia già a delinearsi come un fenomeno estemporaneo e ben strumentalizzato dai media. Si, avete capito bene, "Full Circle" sta ai Pennywise come il Black Album sta ai Metallica: si riparte, qualcosa è cambiato. Anche se, diversamente dal caso dei Four Horsemen, qui non si rallentano i ritmi, non si compongono ballate da matrimonio né ci si taglia i capelli: il quartetto di Hermosa non svolta drasticamente nello stile (che poi è il suo vero, assoluto punto di forza), quanto nelle atmosfere, nelle sensazioni che permeano tutto il disco. "Full Circle" è dominato da un sentimento indefinibile, una presenza sinistra che si addensa inesorabile nelle solite chitarre tonanti e rullate di batteria al fulmicotone. Una intensa rielaborazione di rabbia e paura, di frustrazione e pessimismo, di tormento e incertezza, che se possibile, dona ancora più potenza ai brani dell'album. Ed il risultato è a dir poco clamoroso. Nessuna caduta di tono, nessun rallentamento, nessun riempitivo. Solo skate punk di classe, qualità e passione.  

Si apre con la allucinante "Fight Till You Die", uno dei brani migliori dell'intero repertorio, velocissimo, inebriante, adrenalinico ma anche incazzato a dovere: ti insegue, ti afferra, ti scuote e non ti lascia fino a che non hai versato l'ultima goccia di linfa vitale. Sconsigliato ai deboli d'udito e di cuore! Seguono "Date With Destiny" e "Get A Life", e la formula non cambia: rapidità e melodia, aggressività e armonia, sono gli strumenti con cui i quattro musicisti cercano di guardare in faccia al proprio dolore e di farsi forza dinanzi alle inesorabili scadenze che si incontrano nel lungo cammino della vita. "Society" si discosta nettamente da tali tematiche, per approcciare argomenti di stampo socio-politico (che domineranno gli album successivi): è più sobria delle tracce precedenti ma armonicamente fa centro promettendo oltretutto grande coinvolgimento in sede live. Il giro di basso principale, poi, fa già parte del dizionario fondamentale del punk rock californiano. "Final Day" e "Running Out Of Time" riprendono il discorso sulla caducità del tempo e della vita, rappresentando una meravigliosa (e triste) sintesi di melodia e inquietudine. In mezzo, la splendida "Broken", aperta da un riff pauroso ( provate a suonarlo, vi catturerà!) che completa una prima metà del disco assolutamente da antologia. Non che la seconda sia poi da meno, intendiamoci. Sfidiamo chiunque a rimanere impassibile all'ascolto di episodi di potenza sonica quali "You'll Never Make It" (sezione ritmica da urlo), "Every Time", "Nowhere Fast" (con un interessante cambio di tempo) o la magica "What If I" (prestazione vocale superba da parte di Jim). Altre due song pazzesche per ritmo e intensità, tanto musicale quanto emotiva, sono "Go Away" e "Did You Really?", che ci accompagnano verso la conclusione di un disco eccezionale sotto tutti i punti di vista.

Ma si sa, un disco eccezionale talvolta diventa un classico, un "must" irrinunciabile. Perché si compia questa evoluzione, tuttavia, deve esserci qualcosa che lo renda tale, qualcosa di indimenticabile, di irripetibile, che non valorizza solo l'album ma l'intera carriera della band. Quel "qualcosa" di cui sopra è uno splendido riff di basso di Jason, su cui era stato costruito Bro Hymn, brano di punta del debutto omonimo del gruppo, datato 1991. E su "Full Circle" quel pezzo viene ri-registrato, ampliato, ridefinito, glorificato, portato ad essere ciò che è oggi: l'inno del punk rock, alla pari (come minimo) di "God Save the Queen", "Blitzkrieg Bop", "Nervous Breakdown" e qualunque altro classico del genere vi venga in mente. In "Bro Hymn Tribute" c'è tutta l'essenza del punk: semplicità, adrenalina, entusiasmo, amicizia, libertà, gioventù (di certo non anagrafica). È una festa tradotta in musica, con cui si omaggia un amico che non c'è più. E lo si fa con il suo brano migliore, cantato, suonato- e vissuto- ancora oggi da tutti i punk rockers del mondo, a qualsiasi concerto, in qualsiasi luogo.

E come se non bastasse, il cd si chiude con uno struggente strumentale pianistico nascosto, costruito sull'introduzione di "Unknown Road", titletrack dell'omonimo album. Poco meno di un quarto d'ora emozionante, di melodie incredibili per quanto semplici... Ne si potrebbe parlare all'infinito, ma non servirebbe: il punk non è teoria, non è carta e penna, non è una recensione. "Full Circle" va ascoltato, suonato, interpretato, discusso, assimilato; ognuno deve viverlo con i propri strumenti, con la propria sensibilità, con il proprio approccio. Con questo disco, i Pennywise ci hanno lasciato un grande messaggio: il punk è semplice, meravigliosamente genuino, non impone classificazioni, requisiti tecnici o quant'altro. Rappresenta una base solidissima in cui ognuno può ritrovare le proprie caratteristiche, immettere i propri ingredienti, ritrovare emozioni vecchie o scoprirne di nuove. Loro hanno fatto tutto questo: hanno tributato Jason rimanendo fedeli a se stessi, ma anche lasciandosi andare a ciò che provavano.

 

"All of us are bonded forever

If you die I die that's the way it is"

R.I.P. JMT (1967-1996)

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