Chi è nato negli anni '80 ricorda senz'altro il famoso cartoon che Mediaset, all'epoca Fininvest, ci propinava ogni giorno: “Siamo fatti così”. Era una produzione francese che ebbe notevole successo in Europa e che (ne conosco almeno una dozzina) portò molti ad interessarsi alla medicina e, crescendo, diventare medici o affini (biologi, quando andava male la prima opzione). Tecnicamente era una cosina così, di poco conto, ma indubbiamente faceva conoscere a noi pischelli, o infanti, parole come “arteria”; “sistema nervoso”; “massa muscolare”. E c'erano degli omini che rappresentavano, di volta in volta, il sangue, i condotti cerebrali o altre cose simili che si muovevano, antropomorfizzati, da un punto all'altro del corpo. Ora, io con la scienza ho sempre avuto un rapporto difficile (ci ho sempre capito poco o niente) e “Siamo fatti così”, forse, mi ha più confuso che insegnato, pero' l'idea alla base era interessante.
Io non so se Pete Docter, il regista di “Inside Out”, e uno dei pezzi grossi della Pixar, abbia mai visto tale serie Tv, ma certo l'idea di rendere umane le emozioni, mi ha un po' ricordato quella cosa là, e cioè rendere la scienza un qualcosa di divertente e familiare. Poi, certo, “Siamo fatti così” aveva uno scopo primariamente didattico, “Inside Out” no, è un film a tutti gli effetti, ma non so, quando uscì nel 2015 la mente corse subito all'infanzia passata a capire che cosa fosse la piccola circolazione.
“Inside Out” è, comunque, geniale. Intanto ebbe il merito di risollevare la Pixar da anni di progetti fallimentari (dopo “Toy Story 3”, datato 2010, non ne imbroccò una, tra sequel pietosi, “Monsters University” e opere prime avvilenti “Brave – Ribelle”) e incassi in flessione evidente. Nello stesso anno, caso unico in casa Pixar, uscirono due film, questo e il deludente “Il viaggio di Arlo”. “Inside Out” vuole entrare, letteralmente, nel cervello di un'adolescente, Riley, brava studentessa, discreta campionessa di hockey su ghiaccio, amorevolmente accudita dai genitori che, pero', di colpo si trova a dover traslocare, lasciare la propria città, gli amici e gli affetti e da lì la voglia di ribellione, l'andare contro ai genitori (ritenendoli, non a torto, i colpevoli di tale scombussolamento di vita) fino al piano di scappare di casa. E cosa prova, nel proprio cervello, una ragazzina così, che potrebbe essere l'adolescente di ogni posto del mondo? Ecco dunque manifestarsi le sue emozioni, con gambe, braccia e viso: Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, ognuno di queste caratterizzata da un proprio colore. Gioia comanda l'ufficio generale, gli altri intervengono al momento più o meno opportuno.
Nella testa di Riley i ricordi, rappresentati come tasselli di un puzzle molto più grande, cinque macrocosmi (quello della Famiglia, dell'Amicizia, dell'Hockey, dell'Onesta e della Stupidera) che, nel momento in cui Riley si trasferisce e architetta il piano della fuga, crollano su sé stesse. Mentre i ricordi a lungo termine, dei tubi cilindrici, quelli in cui sono riportate le cose belle della vita vengono intaccate da Tristezza e poi si perdono.
C'è chi ha definito “Inside Out” un manuale di psicologia spicciola, un voler banalizzare qualcosa di grande e difficile da spiegare, come se si volesse ridurre Freud all'altezza di Topolino. Non credo sia così, l'argomento è sicuramente complesso, e il film tende a ridurre a semplicistiche alcune cose, ma essendo, soprattutto, un prodotto destinato al grande pubblico non puo', e non deve, essere un'opera didattica da manuale universitario. E già così com'è costruito appare efficace: oltretutto, è l'unico film a mia memoria, destinato anche ad un pubblico pre-adolescenziale (che non so quanto lo capirà) in cui si fa presente che la Tristezza, intesa come concetto umorale, è indispensabile nella vita di un adolescente e di un essere vivente in linea generale (sarà lei a risolvere gran parte delle vicende nel finale) e che, dunque, accanto alla Gioia, alla felicità della vita, ci devono stare anche sentimenti meno nobili ma fondamentali nel percorso di crescita (ovviamente Tristezza contenuta, non depressione, che è una cosa diversa).
Alcune idee, poi, sono davvero notevoli: il segmento del pensiero astratto è un colpo da maestri, così come il viaggio dentro Immagilandia alla scoperta delle Cineproduzioni (vale a dire l'elaborazione onirica) fino ad arrivare alla discarica dei ricordi con i suoi Smemoratori. Su tutti, si staglia la figura del clown Bing Bong, l'amico immaginario di Riley. Curioso per due motivi: di solito gli americani, da Spielberg a Stephen King, i clown li vedono come delle figure horror capaci di rovinare l'infanzia di chiunque (tipico della tradizione americana), qui invece è addirittura l'amico, seppur immaginario, della protagonista, e secondo motivo, il suo sacrificio, quello di non riaffiorare mai più nella memoria di Riley e finire per sempre tra i ricordi dimenticati, è uno dei momenti più commoventi e, in assoluto, più alti mai visti in un cartoon, non solo Disney. Da applausi, e lacrime.
Nei titoli di coda scopriamo che i cani ragionano e i gatti improvvisano, e che anche gli adulti hanno le loro emozioni con cui condividere la propria esistenza (più romantiche e disilluse quelle femminee, più sanguigne e grette quelle maschili).
Distribuito anche in 3D (e, una volta tanto, con un logico costrutto), ha vinto l'Oscar come miglior film d'animazione (meritatissimo) e, l'anno scorso, un seguito valido e altrettanto interessante, segno che il brand, questa volta, sembra funzionare anche oltre il singolo film d'esordio. D'altronde entrare nel cervello di una ragazza adolescente, successivamente di una ragazza cresciuta e infine, credo, di un'adulta, è come compiere un viaggio in terre inesplorate. Chissà dove si finirà la prossima volta.
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