Una volta vidi un uomo, di una certa età fra l'altro, e senza amplificatori per giunta, che tirò giù, da solo, un teatro con il suo sassofono. Era un periodo di incertezze, in cui le mie convinzioni cadevano una ad una sotto i colpi efferati della rude e mutevole realtà. Mi tornò in mente l'impatto live degli Slayer, anche loro del resto facevano un bel casino, ma cazzo, erano in quattro, davanti ad una parete di amplificatori, e poi c'erano i cazzotti che prendevo nel pogo a rendere il tutto più estremo. Mai, prima di quell'omino con la barba, avevo invece provato quel senso di instabilità, quella sensazione di catastrofe imminente, quella paura che le pareti del teatro potessero da un momento all'altro franarmi addosso. E fu in quel frangente, tornando a casa e rimuginando sulla cosa, che iniziai ad avere veramente paura dell'avanguardia. Forma musicale, questa, che nei fatti conoscevo per come la metabolizza e ce la restituisce il rock: a piccole dosi, sapientemente distribuita, onde non andare a creare troppo scompiglio e al tempo stesso conferire quel giusto tocco di cool and very frizant and ganz that siam. Ma un disco intero di avanguardia…

Quell'uomo si chiamava Peter Brotzmann, ne fui incuriosito, mi fu consigliato questo "Balls", del 1970.

Il free jazz di Brotzmann, non direttamente riconducibile alla scuola dei vari Anthony Braxton, Ornette Coleman e Don Cherry, bensì agli esperimenti di Albert Ayler (il contorsionista del sax che reinventò lo strumento ampliandone lo spettro espressivo oltre l'umano immaginabile) è un'esperienza che travalica i confini stessi del jazz per approdare all'avanguardia più enigmatica. Accompagnato per l'occasione dai virtuosismi di Fred Van Hove e Han Bennick, rispettivamente al piano e alle percussioni, Brotzmann è in grado qui di allestire una sinfonia del disordine che va a ricreare proprio quel senso di instabilità di cui parlavo all'inizio, sebbene l'impatto live sia tutta un'altra cosa.

Una musica, quella di Brotzmann, che si presta, più che con le parole, ad essere descritta con una rappresentazione grafica: immaginate un enorme scarabocchio, un groviglio di segmenti che si attorcigliano senza alcun senso apparente. Avvicinatevi di un poco, e potrete notare che questo groviglio di linee non è affatto uniforme, in certe zone il groviglio s'infittisce, in altre si dirada, e il tratto si fa a volte più deciso, a volte più leggero. Se infine vi avvarrete di una lente d'ingrandimento, potrete scovare piccoli arabeschi, piccole immagini, certe abbozzate, altre meglio definite, che vanno a comporre un mondo di significati che a prima vista era impossibile notare. Sebbene suddivisa in lunghe sezioni, l'opera ha di fatto la struttura di un puzzle e si articola ed evolve in piccole scene e fugaci sketch: un labirinto di scenari anarchici e allucinate geometrie.

L'impatto non può che essere traumatico: fruscii nel sottofondo, un piano strimpellante, fraseggi spezzati di sax che non sembrano portare a niente. L'autismo degli strumenti. I versacci di Bennick. Poi le terremotanti percussioni, come valanghe di ferraglie e bulloni sulle nostre orecchie, e il sax che fugge in crescendo cacofonici, strizzato come una spugna, spremuto fino all'ultimo suono. Finché non torna la quiete, premessa inevitabile per un'altra sfuriata, in un continuo sali-scendi che non sembra trovare posa.

E' il primo sguardo. Prestando una maggiore attenzione (non è certo uno di quegli ascolti in cui ci si può lasciare andare), sarà possibile via via rintracciare sempre più numerose oasi di senso, che so, anche stupidi giochetti, come il battito della batteria che riprende il rimbalzare di una pallone, o il sax che imita un'auto che si allontana. Piccole cose, indispensabili punti di appiglio per districarsi nel groviglio, soprattutto per chi (me compreso) non è proprio avvezzo ad ascolti di questo tipo. Tuttavia, mano a mano che prenderemo confidenza e scopriremo nuove sfaccettature, non potremo che affezionarci a questi tre pazzi, che si rendono responsabili di un qualcosa che, pur nell'incomprensione, percepiamo come qualcosa di grande. Non li capiremo infatti fino in fondo (del resto il genere in sé è impenetrabile per definizione, a meno che si abbiano nozioni di teoria musicale), ma vorremo loro egualmente un gran bene, immaginandoceli a darsi da fare come dei forsennati esclusivamente per lesionarci timpani e cervello.

Per esempio, non si capisce bene di che diavolo di kit di percussioni disponga Bennick, che violenta il suo strumento a livelli tali che pare più un carpentiere che un batterista, fin tanto che si ha l'impressione che a tratti si alzi in piedi e prenda a bacchettate il muro e le teste dei suoi compari. Van Hove è fra i tre quello che sembra fare del suo strumento un uso più "normale": certo, spesso fra le corde del suo pianoforte, oltre alle sua dita, ci finiscono mazzi di chiavi, molle, campanelli e tutto ciò che può disturbare la quiete, ma c'è da dargli atto che almeno, di tanto in tanto, tenta di avvicinarsi (dico avvicinarsi) ad un qualcosa che può assomigliare ad una melodia. Armonie stralunate, tocchi da ubriaco, poi, improvvisamente, virtuosismi da Scala in cui le mani veloci spaziano in lungo e in largo sulla tastiera. E' questione di poco, pare che il meccanismo s'inceppi e s'incanti. Ripetizione, paranoia. Poi una nota scappa via dal coro, poi un'altra, e un'altra ancora, ed una ad una schizzeranno come scintille fuori dal tracciato, per poi impazzire definitamente in melodie sempre più sghembe ed oblique.

E proprio questo non-schema (la reiterazione di un tema, la sua evoluzione a suon di impercettibili variazioni fino a divenire qualcos'altro; la partenza, infine, per nuove divagazioni) pare essere il meccanismo che sta alla base dell'intera opera. Non-schema a cui sono riconducibili le evoluzioni non-sense del sax di Brotzmann, il cui avvento è sempre qualcosa di enigmatico: veramente intellegibile nei suoi fraseggi spezzati, nei suoi improvvisi attacchi epilettici, nel suo andare e venire. Brotzmann si avventa sul suo strumento nel modo meno ortodosso possibile: soffia, sbuffa, fa versacci, si eclissa per minuti e minuti (chissà cosa farà nel frattempo), poi irrompe irruentemente nel baccano generale, ed è sempre un trauma. Ora vomita note che si affastellano come arabeschi di cartavetra nelle nostre orecchie; ora tenta fughe improvvise; ora cerca di mantenersi fedele ad un determinato tema, ma le note, come se non potessero essere controllate, finiscono per schizzare via in tutte le direzioni; ora prende pianoforte e batteria per il collo e li guida verso devastanti crescendo; ora, lasciato solo, si getta in disperati blues, che paiono più che altro il lamento di un qualche volatile agonizzante, che, nella capillare esplorazione di tonalità altissime, sembra prendere con fatica il volo: rimane così, sospeso in aria per qualche istante, come una foca deficiente che batte le mani, come un palloncino che sta per scoppiare, ma che di colpo si sgonfia e vola via, come un gabbiano ubriaco che ha perso il senso dell'orientamento. Un po' come noi.

Senz'altro consigliato agli amanti dell'avanguardia meno piaciona, ma anche a tutti coloro che hanno le palle di addentrarsi nell'ostico mondo delle seghe mentali fatte musica.

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