Cominciamo col dire che amo Peter Hammill non solo per l’incredibile voce o per le tematiche impegnative, sofferte, esistenziali e visionarie del suo complesso percorso artistico e personale. Quel che più amo in Hammill, per affinità spirituale con alcuni stati d’animo che credo nessuno possa esimersi dal provare in certi momenti della vita, è la sostanziale, indiscutibile, definitiva solitudine della sua poetica, ineluttabilità ma insieme disperazione e forza della condizione umana, vissuta con accecante e dolorosa consapevolezza eppure sempre aperta alla bellezza, all’estetica della ricerca, al fine ultimo del viaggio non necessariamente riposto nella meta. Uomo nel profondo eppure impegnato a scorticare l’uomo dall’esterno, Artista che sembra avvitato sulla propria sofferenza ma rinasce alla bellezza della vita ad ogni sua canzone e ad ogni sua performance, con l’unica arma inestimabile della propria voce multiforme e, di volta in volta, una tastiera o una chitarra a disegnare spirali armoniche avvolgenti e meditative, assorte e furibonde, coinvolgenti o irrimediabilmente aliene.
E’ così che lo amo maggiormente: non nella clausura dello studio di registrazione circondato dai suoi musicisti, ma nella clausura interiore dei suoi sofferti e solitari concerti, sempre più affidati all’espressività magmatica delle molte voci che quasi sempre, ma non sempre, sono accompagnate dalla sua esecuzione tempestosa sui tasti di un electric piano o di una chitarra limpida o distorta: e qualche volta neppure da quelle, perché ogni magnifica voce di Peter – dal sussurro enfatico al grido strozzato, dalla preghiera all’invettiva esistenziale – è strumento e giustificazione di se stessa e non ha bisogno di essere sorretta. Non è neppure rarefazione come forma espressiva, come in alcune performance sospese del compianto John Martyn, quanto giusta e naturale cadenza della propria peculiare poetica, che non può essere consumata secondo i tempi o le modalità dell’ascoltatore. Ogni pausa è vissuto interiore, Peter canta chiaramente per se stesso ed il concerto è in realtà un peep show che l’artista consente nel proprio dramma, nei propri incubi e nella forza che gli consente di tornare a casa ogni sera e di ricominciare; e la forza dell’attore che è in lui – indagatore, interprete e maschera per tutti noi del male di vivere - è esattamente quella che gli impedisce di soccombere alle conclusioni del proprio drammatico vissuto interiore, la stessa forza che alla fine è mancata a Ian Curtis e a Luigi Tenco.
Il momento qui mirabilmente fissato è la sera dell’11 aprile 1992, a Berlino, in un teatro silenzioso e consapevole della consueta necessità di Peter Hammill di non essere, per quanto possibile, interrotto e distolto da applausi e comunque dal clima celebrativo del tipico concerto rock, assolutamente fuori luogo nel contesto. Un’ora e mezza di recital in solitudine, tastiera e chitarra e l’enorme repertorio di brani e di emozioni accumulate in venticinque anni di intensa composizione, una ventina di album solisti alle spalle e tutti i ricordi dei Van Der Graaf da rispolverare con parsimonia, se capita. La gradita apertura di ‘My Room’ ricorda ai distratti recensori dei VDGG che questo non è necessariamente il brano solare che alcuni hanno creduto di riscontrare in ‘Still Life’, ma i momenti memorabili di questo bellissimo concerto sono tanti, da una versione davvero tremenda di ‘Patient’ (tra i brani più belli mai scritti da PH) per voce e chitarra elettrica, ad una mirabile sintesi in venti minuti di ‘The Fall Of The House Of Usher’, ambiziosa e bellissima suite sui noti temi di Edgar Allan Poe. Peter è ai suoi massimi vocali ed espressivi, tiene note lunghissime e le sue voci sono molte, e la conclusiva ‘Modern’ è un vero tour de force interpretativo. ‘The Future Now’, ‘Ysabel’s Dance’, ‘A Way Out’, tastiere e chitarra si alternano a supportare l’immaginario di ogni brano e Hammill suona addirittura meglio del solito, perché in alcune occasioni la foga interpretativa può prendere la mano ma stasera è tutto perfetto, ed anche le occasionali dissonanze sono volute.
Qualcuno ricorderà la brutta storia di un Hammill opener in Italia per l’inutile e fatuo Peter Tosh, nel 1980, sconciamente ed orribilmente fischiato e sbeffeggiato da un pubblico inqualificabile (e mi perdonino gli amanti del reggae, che salvando il Maestro Bob Marley a me fa più o meno orrore a partire proprio da quell’orribile episodio, che ebbe vasta eco nei giornali). C’è un brutto video su YouTube che… basta. Bestia l’organizzatore, che immaginò di poter propinare un Artista sensibile ed introspettivo ad un pubblico di cafoni, che volevano solo muovere gli osceni culi e staccare il cervello; bestia chi perse l’occasione di applaudire una bellissima ‘Man Erg’ e, se non ricordo male, una lancinante ‘The Future Now’. (Altro che Peter Tosh, patetica scimmietta di quel grande che fu Marley: il quale sarebbe salito sul palco a prendere le parti e le difese dell’Arte, dub o non dub). Passati tanti anni, Peter Hammill può contare ormai su un pubblico che costantemente lo ama e capisce il suo messaggio, la sua estetica e la sincerità che gli fa dare sul palco quello che pochi altri sono giunti a dare in campo musicale, la sua anima e l’intera sua gamma espressiva. Chi ha visto in teatro Gabriele Lavia, o l’Achab di Gassman, può capire di quali vette di sensibilità ed interpretazione stiamo parlando.
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