“Cinema closed until real life doesn't feel like a movie. Stay safe. Be kind” recita l'insegna circolata sui social in queste settimane. È vero. Oltre a essere chiuso fisicamente, il cinema come finestra della mente, spalancata sul possibile, si è sottratta con violenza. Non si può più evadere da una realtà normalmente grigia, perché grigia non è più. È nera di pessimismo, rossa di sangue, ma sicuramente non grigia. È viva, nel lottare contro la morte, cogente. E la cronaca sta pareggiando, se non superando, la fantascienza.

Non parlerò a lungo di tutto questo, l'ho già fatto in un editoriale. Vi scrivo perché dopo il primo mese senza respiro, qualche film l'ho visto, nel mese successivo. In tv, su dvd, sulle piattaforme. Ma non tanto le cose che mi mancavano, piuttosto i titoli già visti, come consolazione, come incantata ripetizione di quanto già conosciuto e amato, per il gusto di sentirsi confortati da ciò che si sa. Perché là fuori tutto è ignoto, il futuro è avvolto dalle nebbie.

Aspettative iperboliche

Capita allora che in una sera svogliata, tra una videochiamata e l'altra, decida di far partire Le due torri. Per me quattordicenne una mezza delusione. Perché nella mente avevo dipinte, come affreschi indelebili, le scene del primo. Quando la memoria lavora per comparazioni, difficilmente si esce soddisfatti. E allora criticavo persino la sequenza di Gandalf che precipita con il Balrog. Troppa azione, una concessione eccessiva rispetto alle ieratiche immagini de La Compagnia dell'Anello.

Non mi piaceva granché, questo film. Sicuramente perché l'altro mi aveva folgorato, mi aveva fatto amare il cinema di un amore nuovo, che non conoscevo. L'amore per la dovizia di particolari, la cura estrema e l'accortezza nel rendere la complessità della materia narrata (questo non significa fedeltà assoluta al romanzo, badate bene). Era più di guardare un film, era entrare in luoghi ben definiti, un mondo perfettamente organico. Uno snodo fondamentale per me.

Il secondo capitolo, visto 17 anni dopo (ai tempi li riguardai decine di volte, soprattutto il primo) è un altro lavoro gigantesco, non meno ciclopico degli altri due. O forse sì, un pochino, ma siamo comunque nella categoria dei colossi.

Una chiara visione

Pur perdendo un pizzico del nitore e dell'ordine compositivo del primo, sa regalare immagini altrettanto suggestive. Penso a Edoras, che si staglia con la sua pietra scura in mezzo alle terre minacciate di Rohan. Per non parlare di Minas Tirith, bella e scoscesa come l'ambizione degli uomini. O la fortezza di Helm, coriacea ma impaurita. Budella di granito che tremano. La tecnica è precisa, l'uso delle inquadrature allarga con insistenza la visione, per dare la sensazione di un mondo organico, per dare gli schemi dello scontro in modo immediato. Come le cartine di Tolkien nel libro, è fondamentale avere una visione chiara. I campi lunghissimi qui sono anche più importanti dei primi piani.

Anche perché si tratta di opere eminentemente morali, me ne accorgo ora molto più di prima. Una lettura squisitamente cristiana del mondo, con continue simbologie e rimandi concettuali alle parole dei Vangeli. La tentazione, le lusinghe del male, le voragini degli uomini. La loro forza. Ai luoghi corrispondono i concetti, le ombreggiature differenti nella scala tra bene e male. Era quindi fondamentale che quei luoghi fossero ben presenti negli occhi dello spettatore. Il nero cancello, il Monte Fato, le due torri. E ancora la Contea, Gran Burrone, le miniere di Moria. Luoghi che contano anche più dei personaggi. Loro sono attori temporanei della lotta, i luoghi invece riverberano dei valori che c'erano prima e resteranno poi. Il male non inizia qui e non finisce qui.

Struttura e riempitivi

Sicuramente la bellezza estetica e di significato qui risente un poco della struttura, meno efficace rispetto all'esordio. C'è meno da dire, gli spigoli narrativi sono di meno e meno decisivi. Qualcuno potrebbe definirlo un lungo preludio alla battaglia finale al Fosso di Helm. Alcuni aspetti confortano la tesi, come l'introduzione dei mannari e la disavventura di Aragorn. Le lungaggini di Merry e Pipino con gli Ent non aiutano la scorrevolezza, il peregrinare di Frodo e Sam con Gollum non accenna a entrare nel vivo. Non si può negare che dopo l'avventura perfetta del primo volume, ora si proceda sornioni, disponendo le premesse per il botto finale. Questo è il difetto del dittico tra volume due e tre. Che tra l'altro Tolkien aveva accuratamente evitato, disponendo la materia in modo diversificato. Shelob è la grande assente.

Linguaggio e ambizioni

Al di là di qualche difetto strutturale, che può infastidire solo lo spettatore compulsivo, anche questo film gode delle scelte ambiziosissime operate da Jackson. La scommessa è totale, un all in. Come una palingenesi di un nuovo cinema epico, rifondato negli anni 2000 e ben presto rovinato, in favore della più facile epopea dei supereroi. La volontà era quella di fare un'epica vera, difficile, senza semplificazioni. Un respiro profondissimo che richiede pazienza, ma che dona poi moltissimo, molto di più della semplice gioia di vincere una battaglia. Non si tratta di battaglie qui, si tratta di simboli, di soglie da superare o meno. Sfumature.

L'errore degli epigoni del Signore degli Anelli è non capire questo, e forse in certe sue fasi anche Jackson indulge. Se chiedi uno sforzo minimo allo spettatore, minima sarà la gratificazione che trarrà dalla visione. Qui i personaggi parlano per iperbati (“Non c'è promessa che tu faccia di cui io mi fidi”, “Non a caso cadono le foglie di Lórien”). Se semplifichi una materia alta per definizione, la svilisci. Per questo Hollywood è ripartita coi fumetti, per abbeverarsi a uno stile medio, accessibile a tutti, che non teme di essere “macchiato”. Qui ad esempio le battute tra Gimli e Legolas sono stucchevoli, suonano come riempitivo verbale alle lunghe scene di battaglia. Come dire, Jackson rispetta e sa quanto contino i concetti, ma al contempo si fa prendere dalla magniloquenza performativa e spettacolare di Hollywood. Dà al cinema un elisir e insieme il suo veleno. Ma le produzioni meno accorte berranno solo il secondo, negli anni successivi.

Effetti speciali e volti

Il casting di questa trilogia è eccellente, soprattutto nei personaggi chiave. Frodo, Gandalf, Aragorn. Per sempre fissati nella storia del cinema. Ma qui se vogliamo si trovano anche le facce meno convincenti. Da Faramir a Éowyn, a Théoden. Manca un pizzico di carisma. Meglio per altri, come Grima ed Éomer. Il personaggio migliore è di gran lunga Gollum. Come scrittura, come resa in computer grafica, che segna una svolta epocale (celeberrimo l'uso del motion capture sul corpo di Andy Serkis). E qui ci colleghiamo a uno degli aspetti decisivi. L'utilizzo misto di grafica computerizzata, scenari reali, modellini in miniatura. Le ombre, le inquadrature, il montaggio, tutto concorre ad ammantare ciò che vediamo, esistente o fittizio che sia, di un peso di realtà notevolissimo. Non c'è niente di leggero qui, nemmeno le bestie che squarciano i cieli portando i Nazgul. Anche la pura luce di Gandalf, la si può sentire, è presente.

Spulciando il web si può comprendere le difficoltà di rendere tutto questo, i problemi con le location, la lunghissima post produzione. Non ve lo ripeto, leggete da voi se non lo sapete. Ciò che sottolineo è la capacità irripetibile (nei film su Lo Hobbit non è riuscito nemmeno lontanamente a ripetersi) di prendere questo pachiderma di cinema, di roba davanti a una mpd, e di dargli vita, di plasmarlo, aggiungendo, ma anche soprattutto togliendo il non indispensabile, sfrondando i tanti orpelli che potevano tentare.

Il giusto mezzo

Nel suo essere ipertrofico e sterminato, questo film è quasi minimalista. Per questo è rimasto come un'opera che fa la storia del cinema. Ha guardato ai tempi lunghi, invece di perdersi in svolazzi estetizzanti. Tutto ciò che vediamo è essenziale alla grande storia (o quasi, vedi sopra). L'urgenza narrativa è urgenza morale, ineludibile percorso conoscitivo. La fantasia non è mai stata così ponderosa, faticosa, necessaria.

Carico i commenti... con calma