Nel gennaio 1969 i Beatles erano già un gruppo sfasciato: se il "Sgt. Pepper's" (1967) era stato il loro momento di massima espressione collettiva (a maturità raggiunta), il "White Album" (1968) fu un album di solisti uscito a nome della band. Esemplare il giudizio della critica: "[...] i Beatles licenziano un doppio album che manifesta in maniera insanabile come la divaricazione dei linguaggi e di indirizzi soprattutto tra Paul e John sia ormai destinata a un punto di non ritorno" (Enzo Gentile).
Ingolositi da uno show televisivo che non vedrà mai la luce, la band accetta di farsi riprendere dal giovane regista Michael Lindsay-Hogg durante le session lunghe un mese (inizialmente previste per 2 settimane) prima negli studi freddi e inospitali di Twickenham, poi in quelli più ridotti ma conforevoli della EMI di Londra. La band appronta alcuni brani che confluiranno in seguito nel loro ultimo album, "Let it be" (1970) e conclude il mese di prove con il mitologico concerto sul tetto della Apple (che, in questo documentario, viene proposto con nuove angolazioni e nuovi particolari: gustosi quelli dei due poliziotti pivellini costretti a salire sul tetto per tentare, senza successo, di spegnere il volume o quantomeno di abbassarlo). In realtà i Beatles torneranno in studio anche nei mesi successivi, scarteranno tutte le canzoni delle session di gennaio e costruiranno quasi da zero "Abbey Road" (1969, se si eccettuano due brani, "Something" e "Octopu's Garden", ideata da Ringo quest'ultima durante un Viaggio in Sardegna dopo che aveva momentaneamente abbandonato la nave in tempesta, qui appena abbozzate) e a fine ciclo, a band ormai sciolta, sarà George Martin, con esiti dubbi, a riprendere in mano quelle canzoni e pubblicarle, appunto, in "Let it be". Ma del post-gennaio nulla sappiamo, le riprese di Lindsay-Hogg durarono un mese: quel mese.
Alcune di queste riprese furono utilizzate l'anno dopo per il film "Let it be - Un giorno con i Beatles" (1970), ma ne venne proposta davvero solo una piccola parte, quasi insignificante, a fronte delle 60 ore di registrazioni video e 150 ore sonore. Nel 2016 Peter Jackson, regista avvezzo a catapultarsi in imprese titaniche, coadiuvato dal montatore Jabez Olssen, ne tira fuori 7 ore: le più importanti. Inizialmente pensa di proporre il tutto in unico film (troppo lungo, ma il lavoro di montaggio durò 4 anni!) e così avrebbe dovuto essere, con uscita nel 2020. Ma il fato ci mette lo zampino, e quello è l'anno del Covid, tutti a casa e cinema chiusi. Si fa avanti la piattaforma Disney+ che si offre di distribuirlo, suddividendolo in tre parti, come fosse una mini-serie (scelta ottima): prima parte di 156'; seconda parte di 173'; terza parte di 138'. Il risultato è un'opera fluviale, epica, d'impatto culturale-artistico impressionante, eppure mai noiosa: potrebbe andare avanti 80 ore, e scorre come l'acqua di un ruscello.
Ciò che appare è una band certo sfilacciata, tra la leadership di McCartney, quella meno pressante di Lennon, l'insoddisfazione di Harrison e la ciondolante indolenza di Starr, ma non umanamente a pezzi. I quattro hanno idee musicali diverse, spesso contrastanti, ma certi sguardi che si mandano (soprattutto McCartney e Lennon) "tradiscono" una stima professionale e umana mai davvero sopita. Non sono presenti mai delle vere e proprie liti, dei dissidi questo sì, e certo anche la momentanea uscita dalla band di Harrison (che abbandona le session per quasi una settimana, salvo poi ritornare più entusiasta di prima) non è mai il segno di una rottura definitiva, semmai opinioni (ed interessi) differenti. McCartney insegue un pop più maturo eppure subito riconoscibile; Lennon spesso segue l'amico Paul seppur appaia evidente come già insegua una carriera solista (e la presenza di Yoko Ono in studio appare davvero insolente: non fa nulla, sfoglia riviste, legge giornali, smista la posta, ma dà fastidio); Harrison è già nel suo mondo spirituale e si porta due amici Hare Khrisna in studio; Ringo non ne ha quasi mai voglia, eppure è sempre perfetto ad ogni registrazione.
Il processo creativo di alcuni brani è notevole, altre volte mette, senza eufemismi, i brividi. Da antologia il momento in cui McCartney improvvisa dal niente il giro di chitarra di "Get Back", brano che avrà quasi un mese di gestazione. La difficoltà, soprattutto vocale, di "Don't let me down", le svariate incisioni di "Let it be" (con Lennon che si perde in continuazione un FA), la pazienza certosina nel creare la difficilissima "I've got a feeling", i tentativi di incisione di "The long and winding road" (che a Lennon piaceva poco e, quasi a volerlo rimarcare, s'impegna poco o niente al basso: anni dopo Martin darà di quell'esecuzione un solo aggettivo, "impubblicabile"), le armonie di "Dig a pony". Con qualche "croccante" fuori onda: una discussione, accesa ma tutto sommato innocua, tra McCartney e Lennon con dei microfoni piazzati in un vaso di fiori a loro insaputa.
Intorno a loro si muovono una serie di tecnici e musicisti di prima scelta, oltre al suddetto George Martin compare come tecnico del suono un certo Alan Parsons (seppur quasi esordiente). Per tacere dell'apporto fondamentale di Billy Preston, "assoldato" senza quasi dirglielo come quinto membro del gruppo, e poi tante chiacchiere e tanta musica. La rivalità, invero solo di facciata, con i Rolling Stones, la stima nei confronti degli esordienti Fleetwood Mac, le prese in giro (bonarie) a Elvis Presley, la voglia (non realizzata) di lavorare con Nicky Hopkins e l'idea, ad un certo punto, di portare nel gruppo persino Bob Dylan ("ma non ne ha bisogno", asserì saggiamente McCartney). Le intuizioni geniali di Harrison (che prova a cimentarsi anche al pianoforte, con scarsi risultati), Lennon che prova a suonare la batteria e 110 canzoni, eseguite a spizzichi e bocconi, di cui una cinquantina loro e una seconda sessantina di altri. E' un piacere sentirli cantare Elvis, Dylan, Eddie Cochran, Donovan, Chuck Berry e via discorrendo, o sentire Lennon intonare un brano con la melodia che confluirà poi in "Jealous Guy". E naturalmente la figura di Phil Spector, vero Deus ex-machina dell'ultimo album (anche se il suo metodo, passato alla storia come 'Wall of sound" non convincerà mai la band), con qualche notazione sulla "vedovanza" dallo scomparso Brian Epstein, ex-manager, discutibile ma, pare, capace di domare le bizze del gruppo.
Of course, il concerto sul tetto. Qui una nota: quelle immagini le conosciamo tutti, sono su YouTube da anni. Eppure il lavoro di registrazione fu molto più complesso: Lindsay-Hogg mise due telecamere sul tetto di un condominio di fronte, e altre in strada, così da riprendere anche la reazione del pubblico sottostante. Sono immagini che nessuno aveva mai visto, e forse sono ancora più interessanti del concertino improvvisato (in cui la band canta quattro canzoni, di cui due, "I've got a feeling" e "Get back" ripetute), perchè trattasi (quasi) di una sorta di documento sui gusti della popolazione londinese dell'epoca (un mini trattato sociologico). Nell'ordine: una trentina di persone si lamenta del rumore e chiama la polizia; i più giovani apprezzano e riconoscono subito le voci del gruppo, e trovano le canzoni fantastiche (i Beatles non incidevano un singolo da cinque mesi, l'ultimo era stato il trionfale "Hey Jude"); una signora anziana asserisce che a lei la band non piace, eppure molti signori di una certà età non disprezzano (ad un settantenne viene rivolta una domanda impertinente: "Se sua figlia si sposasse con uno di loro?", risposta: "Perché no, sono ricchi").
Il lavoro di Lindsay-Hogg doveva, in un certo senso, ricordare quello più contenuto di Godard con i Rolling Stones ("Symphaty for the devil", 1968; Godard che i Beatles citano come potenziale esempio, oltre al nome, ancor più altisonante, di Stanley Kubrick) ma finì presto per trasformarsi in altro, ad ambizioni ridotte. Jackson ne riporta fedelmente la verità, raccontando le dinamiche all'interno della band in modo rispettoso e volutamente distante (con una qualità delle immagini eccezionale), ma non c'era altro modo per raccontare una storia umana ed artistica unica ed irripetibile come quella dei Beatles. Che ad un certo punto pensarono di sostituire il fuoriuscito Harrison con Eric Clapton (di cui Harrison era grande amico). Lindsay-Hogg nel 1970 il passaggio in cui Harrison abbandona il gruppo lo cancella, quasi lo censura: i Beatles si erano appena sciolti e si pensava che un documentario sulle loro tribolate session non potesse interessare a nessuno. Il tempo, in questo senso, è stato galantuomo.
Ovviamente in lingua originale coi sottotitoli.
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