Durante la guerra di Secessione americana, Abraham Lincoln, col Proclama di Emancipazione, aveva dichiarato liberi tutti gli schiavi degli Stati Confederati. Era il 28 agosto 1863.

Esattamente 100 anni dopo, il 28 agosto 1963, a Washington vi fu la Grande Marcia per il Lavoro e per la Libertà, a sostegno dei diritti civili ed economici degli afroamericani. Qui, il reverendo Martin Luther King tenne il suo famoso discorso, “I Have a Dream”, davanti a 250ˈ000 persone presso il Lincoln Memorial. Discorso che, nella sua parte più bella improvvisato, fu consegnato alla memoria collettiva come il più radicale simbolo di ogni lotta al razzismo e alla segregazione.

Alla marcia presero parte e si esibirono la cantante Gospel Mahalia Jackson, Odetta (gran repertorio di canti Blues), Marian Anderson (stupendo contralto che spaziava dai Lieder agli Spiritual, dall'Opera alla tradizione americana), la regina del Folk Joan Baez ed il giovanissimo e geniale menestrello Bob Dylan. C’era poi, curioso a dirsi, il trio Folk più popolare dell’epoca, quello che aveva reso celebre “Blowin’ in the Wind”, ossia Peter, Paul & Mary.

Ad ascoltarle oggi, le armonie vocali di questo trio fanno quasi sorridere. Senza quasi. Paiono buffe. Ma non è così. Queste canzoni hanno avuto una funzione sociale. Piccoli, timidi rintocchi di chitarra, accordi scarni di semplice accompagnamento, senza velocità e peso. Uno stile gentile, educato, spoglio, morbido, per non dire “soft”. Una fragilità disarmante. L’essenzialità unita alla perfetta intonazione.

Nei primi 60, negli USA, erano decisamente stimati, se non proprio considerati i numeri uno. Avevano il merito, non effimero, di aver attratto l’attenzione della borghesia sui temi sociali che poi sarebbero stati cari agli hippies, allargando la coscienza politica di una generazione altrimenti scevra e preparando il terreno alla “Dura Pioggia” di Robert Zimmerman.

Mary Travers (Louisville, 1936), Paul Stookey (Baltimora, 1937) e Peter Yarrow (New York, 1938) si erano incontrati al Greenwich Village nel 1960. Notati al Bitter End da Albert Grossman, poi produttore di Dylan e della Joplin, furono messi sotto contratto con la Warner Bros. e subito lanciati dal clamoroso successo della bellissima “If I Had a Hammer”. Da noi, il testo di Pete Seeger venne edulcorato, banalizzato e reso frivolo, quindi interpretato, pur piacevolmente, da Rita Pavone. La traduzione corretta potrebbe essere la seguente:

Se avessi un martello
Martellerei la mattina
Martellerei la sera
In tutta la terra

Martellerei via il terrore
Martellerei via la paura
A forza di martellate sistemerei l'amore
tra i miei fratelli e le mie sorelle
In tutta questa terra

Se avessi una campana
La suonerei la mattina
La suonerei la sera
In tutta questa terra

Suonerei via il terrore
Suonerei via la paura
Sveglierei l'amore a forza di scampanellate
tra i miei fratelli e le mie sorelle
In tutta questa terra

Se avessi una canzone
La canterei la mattina
La canterei la sera
In tutta la terra

Canterei via il terrore
Canterei via la paura
Costruirei l'amore a forza di canzoni
tra i miei fratelli e le mie sorelle
In tutta questa terra

Bene, ho un martello,
E ho una campana
E ho una canzone da cantare
In tutta questa terra

É il martello della Giustizia
É la campana della Libertà
É la canzone d'Amore
tra tutti i miei fratelli e le mie sorelle
In tutta questa terra

Giustizia, che tema desueto! E quanta meravigliosa e diretta ingenuità. A livello di emozioni, dove il pezzo agisce, la giustizia è l’incontro della rabbia con la gioia.

Blowin’ in the Wind” aveva tenuto a battesimo il semisconosciuto Dylan, rendendo il pezzo un dilagante fenomeno delle radio nazionali. Un tuffo ammiccante, in seguito, nel mondo del canto per l’infanzia cresciuta con “Puff (The Magic Dragon)”, 1963, che per alcuni si presta addirittura ad una lettura pre-psichedelica (anticipando la Great Society e l’Aeroplano Jefferson del Bianconiglio di Alice).

Il destino naturalmente volle che i tre scomparissero come le mura di Gerico sotto la spinta di Beatles e Rolling Stones. Cercheranno di sopravvivere con canzoni per bambini, ribattezzandosi Peter, Paul & Mommy. L’ultimo sussulto, nel 1970, è con “Leaving On a Jet Plane” di John Denver, mentre il loro Folk diventava sempre più prossimo al Pop e all’Easy Listening. Inevitabilmente si sciolsero per riproporsi solo estemporaneamente. Yarrow fu persino condannato ad alcuni mesi di reclusione per molestie sessuali.

Ignorati subitaneamente dalla gioventù a stelle e strisce e dal mondo, non se li ricorderà (leggi pure “non se li cagherà più nessuno”) nemmeno il Folk Revival, che pur gli è debitore.

Ten Years Togheter: The Best of Peter, Paul & Mary” è una discreta raccolta del lontano 1970, di nobile e quieta semplicità, certamente superata per completezza da ”The Very Best of” della Rhino (2005), ma presente nel database di Debaser, che altrimenti non presta né recensioni, né ascolti. La collezione li coglie in quei primi dieci anni importanti, o quantomeno non trascurabili, e vanta in copertina una bellissima illustrazione di Milton Glaser, chiara e poetica. Invero c’è “500 Miles”, traccia emblematica della loro attenzione esistenziale.

500 Miles” è una canzone delicata, titillante, che mi fa sentire cullato come pochissime altre. Ti avvolge in una sorta di liquido amniotico, con una melodia misurata e vibrante. E col canto pieno di Mary.

If you miss the train I'm on,
you will know that I am gone
You can hear the whistle blow a hundred miles,
a hundred miles, a hundred miles,
a hundred miles, a hundred miles,
You can hear the whistle blow a hundred miles.

Lord I'm one, Lord I'm two,
Lord I'm three, Lord I'm four,
Lord I'm five hundred miles from my home.
five hundred miles, five hundred miles,
five hundred miles, five hundred miles
Lord I'm five hundred miles from my home.

Not a shirt on my back,
not a penny to my name
Lord, I can't go a-home this a-way
This a-away, this a-way,
this a-way, this a-way,
Lord I can't go a-home this a-way.

If you miss the train I'm on
you will know that I am gone
You can hear the whistle blow
a hundred miles.

Questa canzone è una ferita ricevuta nelle profondità del cuore, forse, dalla punta di un desiderio immateriale. Mary ti trafigge e dice, con bellezza tremante, che, qualsiasi cosa di cui tu avverta la mancanza, qualsiasi cosa tu sia disposto a chiamare casa, le distanze non ti schiacciano e la speranza non muore. Poi queste distanze vanno intese, van percorse nei due sensi. Poiché ci separano da noi stessi. E dagli altri.

Ci sono in tutto solo tredici canzoni, comprese “Don’t Think Twice, It’s all Right”, “Stewball”, “I Dig Rock and Roll Music”.

Mary, intano, il 16 settembre 2009, ci ha lasciato dopo una lunga lotta contro la leucemia.

“Ma quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

[Martin Luther King – Washington, 28 Agosto 1963 ]

Si voglia o no, l’esodo è il cammino fondamentale di ogni esistenza.

Carico i commenti... con calma