Gran brutta bestia, il marketing, con tutti i suoi annessi e connessi: la segmentazione del mercato e la matrice s.w.o.t., il marketing mix e la break-even point analysis. Tutto questo ambaradan giusto per dimostrare che non puoi vendere ciò che vuoi produrre ma devi produrre ciò che puoi vendere.

E pure gran brutta cosa lavorare nel settore, tipo i capoccioni della Dunhill che, armati di abbondanti dosi di amorevole pazienza, siedono a tavolino con Philip e cercano di ampliare le sue ristrette vedute ed inculcargli quella semplice, banale verità: non puoi vendere ciò che vuoi produrre ma devi produrre ciò che puoi vendere.

Ma cosa che ne può capire di marketing, Philip?

Philip che per il suo tredicesimo compleanno riceve in dono da mamma e papà la “sua” chitarra acustica e sua sorella scrive il bigliettino che la accompagna e ci tiene un mondo a vergare di suo pugno anche «Mamma e papà», prima di imprimere il suo nome, chiudere il biglietto in una busta color amaranto che ha comprato apposta per l’occasione e riporla in gran segreto nella tasca più grande del fodero.

Solo che non è andata proprio così, la storia.

Philip sa già che il regalo per il compleanno è la “sua” chitarra, lo sa perché quel regalo se lo è scelto lui: sono settimane che, tornando a casa da scuola, si incanta davanti alla vetrina di quel negozio a rimirare sognante la “sua” chitarra ed ogni sera, prima di addormentarsi, esprime il desiderio che nessuno entri a comprarla prima che arrivi il giorno del suo compleanno, perché quella e solo quella deve essere la “sua” chitarra.

Il coraggio di rivelare il suo desiderio a mamma e papà lo trova solo pochi giorni prima della data fatidica, perché allora non funziona come ora, che i marmocchi cominciano a martoriarti ad Ognissanti per Natale e più di una volta ti domandi se valga la candela essere genitore amorevole e premuroso.

Allora, anno domini 1958, il regalo lo vivevi per davvero.

Ecco, in verità la storia è andata così, ma per paradosso il seguito appare molto più inverosimile rispetto a quella che ho romanzato e vi ho propinato io.

Perché quando giovedì 18 settembre 1958 papà Schlein accompagna Philip in quel negozio, mentre Philip imbraccia per la prima volta la “sua” chitarra per provare “come suona”, proprio in quel mentre proprio in quel negozio, entra il Re.

Che è il Re, sì, ma dopotutto ha solo 23 anni ed ancora non ci ha fatto il callo a vedere due uomini ed un mezzo bambino con i menti che toccano terra ed incapaci di spiccicare una parola, nemmeno un saluto.

Allora è lui che prende l’iniziativa e, per rompere il ghiaccio, si rivolge a Philip, qualcosa tipo «Ciao ometto, se mi presti la “tua” chitarra, te lo faccio vedere io come si suona». Figurati se qualcuno di quelli col mento a terra ha qualcosa da obbiettare, per cui il Re prova la chitarra di Philip, suona e canta qualcosa, restituisce la chitarra a quel mezzo bambino, gli accarezza la testa a mo’ di saluto, compra quello che deve comprare, paga, saluta papà Schlein ed il commesso e se ne va.

Quelli, sempre col mento a terra, sono talmente scombussolati che papà Schlein e Philip escono dal negozio come se nulla fosse; poi, dopo due isolati, Philip realizza di non avere a tracolla il suo regalo, per cui dietrofront verso il negozio; papà e commesso invitano con insistenza Philip a riprovare la “sua” chitarra, magari ricapita in negozio qualcun altro, ma questa volta niente; per cui papà Schlein paga, Philip, gongolante, si mette in spalla la chitarra e tornano a casa; dopo un paio d’ore il commesso spegne le luci, abbassa la saracinesca e vola a casa a raccontare tutto eccitato a sua moglie chi è entrato oggi in negozio, la moglie lo guarda strano e senza farsi notare nasconde la bottiglia del gin; pure mamma Schlein, dopo cena, senza dare nell’occhio, nasconde la bottiglia di whiskey, perché suo marito vaneggia da ore del Re e di fantomatici sommovimenti pelvici e Philip, richiesto di conferma, boh, nemmeno sa di cosa stia blaterando papà; lui ha la sua chitarra in cameretta, che campeggia tra il letto suo e della sorella, e quella sarà la sua vita, il suo mondo, lo sente.

Philip è un ragazzino in gamba, ha talento artistico, ama tanto scrivere e sogna che un giorno quelle paginette di quaderno scritte fitte fitte prendano vita, si animino di musica. Per questo ha desiderato con tutto il cuore che mamma e papà gli regalassero la “sua” chitarra, per animare le paginette dei suoi quaderni.

Philip non sa suonare ma ci si mette con tale impegno e fa tali progressi che dopo un anno, quando ha solo quattordici anni, l’uomo del marketing di una casa discografica di Los Angeles, la Aladdin, telefona a casa Schlein, qualcosa del tipo «Signor Schlein, abbiamo ascoltato il nastro di suo figlio che ci ha inviato, ci piace, perché non fate un salto qui?».

È andata proprio così, se non fosse che nel frattempo papà Schlein ha deciso di mutare il cognome in Sloan, perché Schlein suona troppo ebreo e può accadere che qualcuno non ti rilasci le licenze che ti servono per lavorare e campare la tua famiglia.

Philip Schlein diventa Philip Sloan ma lui, adolescente quattordicenne, non elucubra troppo circa le implicazioni socio-politiche di Philip Schlein che diventa Philip Sloan. Lui non sta più nella pelle per quella visita alla Aladdin e per quel pezzo di vinile tondo che presto stringerà tra le sue mani.

Oddio, quel pezzo di vinile penso che lo abbiano stretto tra le mani giusto Philip ed i suoi famili, i suoi parenti ed amici più cari, dato che pochi giorni dopo la Aladdin chiude i battenti per cui l’esordio discografico del piccolo Philip Sloan rimane evento per pochi intimi.

Ma Philip per fortuna non demorde, sennò non ci sarebbe alcuna storia da raccontare.

Intanto ha conosciuto Steve - Steve Barri - ed insieme a lui cerca di sfondare; i due cambiano ragione sociale più in fretta della biancheria intima ma non approdano a niente, il singolo che domina le classifiche non lo sfornano.

Proprio niente niente però no, almeno si fanno notare, tipo da Lou Adler che è un discreto pezzo grosso - il manager di Jan e Dean - che li ingaggia come musicisti e coristi; per cui sulle copertine dei dischi che il dinamico duo del surf incide tra il 1964 ed il 1965, a leggere bene tra i crediti, ci stanno pure i nomi di Philip e Steve.

Jan e Dean sono famosi, quasi quanto i Beach Boys, e di conseguenza Adler ha pacchi di dollaroni, così tanti che gli escono dalle orecchie, e non sapendo come investirli mette in piedi una casa discografica, la Dunhill dell’inizio; assume un bel po’ di capoccioni perché si occupino di marketing e spieghino a chi di dovere come funzionano le cose - la vecchia storia per cui non puoi vendere ciò che vuoi produrre ma devi produrre ciò che puoi vendere; si porta dietro pure Philip e Steve, perché sono due ragazzi che ci sanno fare, magari non capiscono granché di marketing, ma con le parole e le note ci sanno fare.

Soprattutto Philip, che afferra al volo che quella è la grande occasione e si mette a scrivere di getto: «You Baby» e «Let Me Be» sono i successi commissionati per i Turtles, «A Must To Avoid» e «Hold On» per gli Herman’s Hermits, «Take Me For What I’m Worth» per i Searchers, per non dire di «Secret Agent Man» per Johnny Rivers, che diventa pure il tema principale della serie televisiva inglese «Danger Man» nell’edizione statunitense.

Di persona, Philip il successo arriva soltanto a sfiorarlo, insieme a Steve.

In quei giorni, i due si fanno chiamare The Grass Roots e, dopo il discreto riscontro e favore incontrato da «Mister Jones» - prova generale consistente in un’innocua rielaborazione di «Ballad Of A Thin Man» - i due tirano fuori il singoletto «Where Were You When I Needed You» che si affaccia nella Billboard Top 30.

Potrebbe essere il trampolino di lancio verso la gloria, è l’inizio della fine.

Terzultimo atto

La Dunhill fa pressioni perché il duo diventi una banda vera e propria ed incida un elleppì che suoni così e cosà.

Si fa come vuole la Dunhill ma non va come sarebbe dovuta andare.

Penultimo atto

Philip e Steve sono di malumore per le pressioni della Dunhill e pure per il fiasco del disco, per cui decidono di comune accordo di fuoriuscire da The Grass Roots che evolve in The Grass Roots due.punto.zero, se solo all’epoca si sapesse cosa voglia dire quella formula diabolica.

Vuol dire solo che Philip e Steve tornano nell’ombra, a comporre parole e musica per i nuovi The Grass Roots, e funziona alla grande: la rielaborazione di «Let’s Live For Today» dei Rokes scala la U.S. Top 10.

È il passo decisivo verso la fine.

Ultimo atto

Quelli di The Grass Roots vogliono emanciparsi da Philip e Steve.

Philip vuole quello che ha sempre sognato, vuole scrivere le “sue” canzoni, vuole vendere i “suoi” dischi, come Philip Sloan.

Inevitabili le prime divergenze, i dissapori con Steve e con i capoccioni della Dunhill.

«Eravamo due ragazzi ebrei, giocavamo insieme, amavamo gli stessi film. Ma il primo successo lo ha trasformato ed ho capito subito che non sarebbe più tornato lo stesso. Ma ha un grande talento, Dio, se è bravo.», così parla Steve in quei giorni.

«Vorrei essere amato, vorrei essere come Elvis.», Elvis che qualche anno fa ha preso in mano la “sua” chitarra e gli ha mostrato come si fa; così parla Philip in quei giorni.

Nonostante tutto, Philip e Steve superano le incomprensioni e procedono avanti; le strade di Philip e della Dunhill, al contario, divergeranno presto.

È il 1965.

Philip pubblica il suo primo disco solista, «Songs Of Our Times», molto bello, ma non vende nulla.

Per forza, si giustificano i capoccioni del marketing chiamati a rapporto da Adler, noi glielo abbiamo detto che non può vendere ciò che vuole produrre ma deve produrre ciò che può vendere, ma lui niente, ha voluto fare a modo suo e questi sono i risultati.

Adler decide di offrire a Philip una seconda opportunità, «Ma questa volta si fa a modo nostro!», con tanto di punto esclamativo, il disco dovrà suonare così e cosà,e quelli del marketing annuiscono convinti.

È il 1966.

Philip pubblica il suo secondo disco, «Twelve More Times», ancora più bello dell’esordio, a renderlo tale «The Man Behind The Red Balloon» e «When The Wind Changes», due canzoni assolute.

Il disco miscela folk, rock e pop come vuole Philip, non come pretendono quelli della Dunhill, per cui il disco non vende niente.

Adler convoca i capoccioni del marketing; i capoccioni del marketing si discolpano come solito; Adler si risolve a silurare Philip.

Ma è Philip che ha silurato la Dunhill, da mesi sa già come sarebbe andata a finire e se n’è andato per la sua strada poche ore dopo che il disco è nei negozi.

Philip vuole vendere dischi, non vendere se stesso, ma questi dettagli non sono programma di studio nei corsi di marketing.

Se Philip avesse frequentato un corso di marketing avrebbe imparato che firmare le sue opere come P.F. Sloan non funziona, soprattutto se l’effe puntata sta per “flip”, quel ridicolo nomignolo che gli ha affibbiato la sorellina anni prima.

Ma “Flip” è ancora convinto di essere il tredicenne che tiene la “sua” chitarra tra il letto suo e quello della sorella, e che questa sia la strada per il successo.

“Flip” è ancora convinto di fare a modo suo, per cui «Twelve More Times» suona tutto suo, esclusivamente suo, e gli echi di Dylan, Byrds, Beau Brummels e Leaves sono solo echi.

Se la storia si facesse con i “ma” e con i “se”, allora “Flip” avrebbe ottenuto i riconoscimenti che merita.

Se avesse avuto la faccia tosta di Elvis, ma nemmeno per sogno, di Elvis ha solo un barlume di sguardo, sul retrocopertina.

Se avesse avuto le visioni di Bob Dylan, avrebbe scritto «Ballad Of A Thin Man», mica «When The Wind Changes»; lui racconta storie semplici e lineari, piane, mica preannuncia il mondo che verrà a mezzo di arcane simbologie; e poi il titolo sarebbe stato «Blonde On Blonde», avrebbe fatto crescere capelli scarmigliati ed indossato una giacca scamosciata ed una sciarpetta di tendenza.

Se fosse stato Jimmy Webb, di sicuro «P.F. Sloan» non l’avrebbe scritta, o forse l’avrebbe scritta ma non incisa, o forse l’avrebbe pure incisa ma sottintendendo tanta di quell’autoironia che non gli difetta.

Poi, preso atto che a forza di “ma” e “se” non si sbarca la realtà, dopo altri due album di buon livello che vendono niente pure questi, “Flip” si ritira a vita privata, salvo un paio di occasionali uscite - negli anni Novanta ed una decina di anni orsono.

La ripresa di «P.F. Sloan» da parte della giovane cantautrice Rumer nel 2012 è l’ultimo segnale captato.

Poi saputo più niente di lui, almeno io.

Fino a qualche mese fa, quando ho conosciuto per caso della sua morte, lo scorso anno di questi giorni, e mi sono fatto il dubbio che se fosse stato Barry McGuire magari «Eve Of Destruction» l’avrebbe incisa a nome suo ed allora la storia sarebbe andata diversamente.

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